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trattativa cosa nostra stato
Diciamoci la verità, tutta la verità, a commento della sentenza d’appello di Palermo che ha declassato a un fatto che “non costituisce reato” la presunta trattativa fra lo Stato e la mafia. Della quale l’intera vicenda giudiziaria ha preso addirittura il nome più generalmente usato sui giornali e nelle stesse aule dei tribunali. Sono stati perciò assolti gli ufficiali dei Carabinieri accusati di averla condotta, e nuovamente condannati i mafiosi che dall’altra parte non avrebbero compiuto ma solo cercato di attentare con violenze e minacce al funzionamento di un corpo politico o amministrativo o giudiziario dello Stato, come dice l’articolo 338 del codice penale cavalcato dall’accusa. Diciamocela, questa verità, senza fare sconti a nessuno: né ai magistrati inquirenti, né a quelli giudicanti di primo grado, sconfessati appunto in appello, né ai giornalisti. O, se preferite, a noi giornalisti, fra i quali ve ne sono alcuni oggi quasi soddisfatti anch’essi del nuovo verdetto, ma sino a qualche tempo fa partecipi - spero in buona fede- di una colossale opera di mistificazione della storia e di avvelenamento della lotta politica.
La verità è che una trentina d’anni fa gli scribi giudiziari della storia - intesi come certi inquirenti e i cronisti, commentatori, analisti che ne raccoglievano e amplificavano iniziative, convinzioni e umori- si passarono le consegne fra Milano e Palermo per deformare la conclusione della cosiddetta prima Repubblica e l’incubazione della seconda. Che, secondo costoro, non stava avvenendo nel 1993 col passaggio referendario e legislativo dal sistema elettorale proporzionale a quello prevalentemente maggioritario, che prese il nome latinizzato dell’attuale capo dello Stato, cioè Mattarellum, ma con le stragi mafiose e col tentativo “spregiudicato e disperato”, ancora ieri lamentato su Repubblica da Carlo Bonini, di prevenirle, limitarne i danni e addirittura strumentalizzarle con la infausta “trattativa”. Alla quale molti tolsero via via anche le virgolette originariamente usate per cautela.
A Milano, senza offesa per protagonisti, attori e comparse di “Mani pulite”, i cui superstiti peraltro hanno finito o stanno finendo la loro carriera scambiandosi querele o minacciandosele, la cosiddetta prima Repubblica fu travolta da una decapitazione selettiva dei partiti, e relative correnti, che da anni, e sotto gli occhi di tutti, si finanziavano irregolarmente, diciamo pure illegalmente. Né potevano fare diversamente per la scelta ipocrita da tutti compiuta di destinare alle forze politiche un finanziamento pubblico insufficiente a coprire davvero le loro spese, che pure erano evidenti con le sedi di cui disponevano, il personale, le manifestazioni, i giornali, e magari anche l’arricchimento personale di alcuni che raccoglievano illegalmente - ripeto fondi per la loro parte politica e ne trattenevano per sé un po’, o un bel po’, secondo i casi. Tutto divenne o fu scambiato per corruzione, in buona e cattiva, anzi cattivissima fede.
Già minato dalla caduta del muro di Berlino, nel 1989, e dalla dissoluzione fortunatamente senza sangue del comunismo, si era spontaneamente esaurito il sistema bipolare italiano derivato per decenni dalla presenza del partito comunista più forte dell’Occidente e dall’azione di contrasto degli avversari, salvo tregue come quella della cosiddetta solidarietà nazionale nel 1976. L’unico a capirlo e a dirlo più o meno chiaramente in pubblico fu l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga auspicando, pur con picconate verbali, un’evoluzione ordinaria e ordinata degli equilibri politici. Gli altri preferirono ricorrere all’ascia giudiziaria, liquidando come ladri quelli che resistevano al governo o, sul versante opposto, continuando a scambiare per comunisti quelli che di fatto non lo erano più per chiusura, diciamo così, della ditta.
A Palermo, anziché saltare in groppa alla lotta alla corruzione, vera o presunta che fosse, si saltò in groppa alla lotta alla mafia, anche lì vera o presunta che fosse, per abbattere vecchi equilibri e crearne di nuovi. E poiché la mafia, quella vera, proprio in quel periodo aveva deciso di ricorrere agli attentati sanguinosi per spezzare l’assedio che magistrati di valore come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avevano pazientemente tessuto, contrastati spesso dai loro stessi colleghi per basse ragioni di carriera, anche le stragi furono strumentalizzate più per lotte politiche che per altro. E così fu possibile che, o per liberarsi più rapidamente dei vecchi equilibri o per scongiurarne di nuovi, Giulio Andreotti divenne il capomafia, più o meno, da abbattere e Silvio Berlusconi l’erede da soffocare in culla presentandolo come il nuovo referente della criminalità organizzata, disposto ad assecondarla direttamente o attraverso i suoi amici, a cominciare da Marcello Dell’Utri, peraltro siciliano doc, per consolidare il potere appena conquistato con la sorprendente vittoria elettorale del 1994. O addirittura per conseguire quella vittoria.
È potuto così accadere che un’operazione “spregiudicata e disperata”, come - ripeto- la definisce ancora Carlo Bonini su Repubblica, anche dopo l’assoluzione in appello degli alti ufficiali che la condussero, pur avendo portato alla cattura di boss mafiosi come Totò Riina e Bernardo Provenzano, morti entrambi in carcere, fosse scambiata per una torbida congiura, o qualcosa del genere. E ciò anche a costo di trascinare ad un certo punto nelle polemiche, e nella stessa vicenda giudiziaria, un onestissimo presidente della Repubblica come Giorgio Napolitano, e altrettanto onesti collaboratori come il compianto consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, morto di crepacuore. Vergognatevi, scribi della malora.