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Arresti illegali, estorsioni, violenze, traffico e spaccio di stupefacenti: sono le pesantissime accuse mosse dalla Procura di Piacenza all'intera stazione dei carabinieri “Levante”, tutti (tranne uno) coinvolti nell’operazione “Odysseus”. Sono 23 le persone indagate, tra le quali 10 militari dell’Arma dei carabinieri e un militare del Corpo, ritenuti responsabili, a vario titolo, delle ipotesi di peculato, abuso d’ufficio, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio, lesioni personali aggravate, arresto illegale, perquisizioni ed ispezioni personali arbitrarie, violenza privata aggravata, tortura, estorsione, truffa ai danni dello Stato, ricettazione, traffico e spaccio di sostanze stupefacenti. Ipotesi di reato gravissime, che hanno spinto la procuratrice Grazia Pradella ad emettere una dura sentenza già nel corso della conferenza stampa: «Faccio a fatica a definire questi soggetti come carabinieri, perché i loro sono stati comportamenti criminali. Non c'è stato nulla in quella caserma di lecito». L’inchiesta presenta caratteristiche senza precedenti: l’intera caserma dei Carabinieri è stata posta sotto sequestro, cinque militari sono finiti in carcere (assieme ad altre sette civili) e uno, il maresciallo che comanda la stazione, agli arresti domiciliari. «Per noi è come un colpo al cuore», ha dichiarato il comandante provinciale di Piacenza Massimo Savo al quotidiano “Libertà”. Le 300 pagine di ordinanza sono un vero campionario degli orrori, con «arresti completamente falsati e perquisizioni arbitrarie», tanto che uno dei civili arrestati si lascia andare descrivendo le scene degne del film “Gomorra”. «Hai presente Gomorra? Le scene di Gomorra. È stato uguale e io ci sguazzo in queste cose. Tu devi vedere gli schiaffoni che gli ha dato!», ha affermato raccontando ad un’altra persona i modi con cui uno dei carabinieri arrestati si era fatto consegnare un'auto, facendo scattare l’ipotesi di estorsione. I fatti più gravi sarebbero accaduti durante il lockdown, quando le possibilità di spaccio, sul territorio, si sono necessariamente ridotte. Difficoltà oggettive alle quali i carabinieri avrebbero ovviato mettendo in piedi il proprio personale business. Al vertice della «piramide» messa in piedi per lo spaccio un Appuntato, attraverso una rete di pusher di propria fiducia. La droga veniva reperita sequestrandola ai pusher che non facevano parte della rete di informatori dei militari: dello stupefacente sequestrato solo una parte veniva messa a disposizione dell’autorità giudiziaria, mentre il resto veniva, in parte, concesso in piccole dosi, assieme a somme di denaro, ai confidenti, con lo scopo di ripagarli per le soffiate su altri spacciatori da arrestare, e in parte consegnata a pusher di fiducia per la commercializzazione sul territorio piacentino. «Siamo irraggiungibili», diceva al collega, spiegando che senza la loro roba gli spacciatori non avrebbero potuto lavorare. Gli inquirenti hanno registrato anche attività di staffetta per conto degli spacciatori, custodia e detenzione degli stupefacenti e spaccio per conto proprio. Ma non solo: per agevolare lo spaccio, uno dei militari avrebbe fornito ad uno spacciatore un’autocertificazione in grado di consentirgli di spostarsi in Lombardia per reperire la droga. L’inchiesta ipotizza anche arresti ingiustificati: «Vi era non solo l’obiettivo di procacciare la droga, ma anche quella di sembrare più bravi degli altri, e per questo venivano eseguiti più arresti. Peccato che spesso questi arresti si basassero su circostanze inventate e falsamente riferite, dapprima oralmente e poi per iscritto al pubblico ministero di turno. Non solo, accompagnate da una sorta di autoesaltazione, perché questi carabinieri si consideravano più furbi, più bravi dei colleghi di altre caserme che invece lavorano con correttezza e non solo sul territorio di Piacenza». Ma, soprattutto, i militari si sarebbero resi responsabili anche di pestaggi e torture. Come l’ 8 aprile scorso, quando avrebbero picchiato a sangue uno spacciatore nigeriano, poi persino fotografato. «Quando ho visto quel sangue per terra, ho detto: “Mò l’abbiamo ucciso…”», si sente dire all’appuntato, dal cui cellulare i finanzieri hanno estrapolato la foto dell’uomo seduto sull’asfalto, senza scarpe, ammanettato e con il volto insanguinato, con vistose macchie di sangue sul selciato. Ed è solo uno degli episodi di violenza contestati, tra i quali compare anche la tortura. Un altro giovane egiziano sarebbe stato «minacciato anche con violenze e agendo con crudeltà», come riporta ancora l’ordinanza, «cagionandogli acute sofferenze fisiche»: «Minchia, questo c’ha fatto penare - diceva a proposito l’appuntato parlando con la compagna - mamma mia quante mazzate ha pigliato, colava il sangue, il sangue gli colava da tutte le parti, sfasciato da tutte le parti, non parlava. Credimi che ne ha prese, ne ha prese».