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In principio furono le fake news. Per 24 ore il dibattito sul fine vita è stato monopolizzato da una notizia infondata: quella secondo cui, in attesa dell’udienza della Corte Costituzionale del 24 settembre, dal Comitato Nazionale di Bioetica sarebbe arrivato a maggioranza un “sì” alla legalizzazione del suicidio assistito.
Non era vero, dal momento che il CNB si è spaccato a metà tra favorevoli e contrari. Sicché lo stesso organismo è stato costretto a precisare come in realtà stessero le cose, a fronte di un equivoco – ammesso che di mero equivoco si sia trattato – innescato dalle improvvide dichiarazioni del presidente del Comitato, al quale il ruolo ricoperto avrebbe dovuto suggerire forse maggior prudenza.
Al di là del dato stilistico, il nodo di fondo risiede nel tentativo di affermare che il suicidio assistito sarebbe ben diverso dall’eutanasia e, in quanto estrema espressione dell’autodeterminazione dell’individuo, qualcosa di eticamente accettabile, addirittura in presenza di condizioni ben più ampie di quelle individuate dalla Consulta.
Inizio col dire che alla distinzione tra suicidio assistito ed eutanasia io non credo se non come espediente lessicale privo di sostanza, e del resto a confermarlo è la stessa Corte nell’evidenziare come già la legge sul “testamento biologico”, nel consentire la sospensione di idratazione e alimentazione, sia nei fatti eutanasica.
In ogni caso, è evidente come qualsiasi discorso sul fine vita si innesti sul confronto tra diverse concezioni della libertà. E, alla base di ogni tentativo di legalizzazione del suicidio assistito o dell’eutanasia, vi è il passaggio dal piano di una presunta libertà a quello di un diritto esigibile a morire, che in quanto tale implica l’obbligo in capo allo Stato di garantirne l’esercizio facendosi dispensatore di morte su richiesta.
E’ questo lo Stato, la società, l’idea di libertà che vogliamo? Io, personalmente, non lo voglio.
Questa vicenda ha avuto tuttavia il merito di rendere ancor più assordante il silenzio dell’unico organo deputato a occuparsene con piena facoltà. Da ormai nove mesi il Parlamento è a conoscenza di un ultimatum che pende sulla sua testa; sa che, piaccia o non piaccia ( e a me certamente non piace), in caso di una sua inerzia il 24 settembre la Corte Costituzionale potrebbe sistematizzare a modo suo il vulnus aperto nell’ordinamento dalla pessima legge sulle Dat approvata sul finire della scorsa legislatura. Da ormai nove mesi il Parlamento nel quale con un’insistenza senza precedenti riecheggia la parola “sovranità” sa che, se non eserciterà il proprio ruolo, devolverà a un organo giurisdizionale la più alta forma di sovranità che la Costituzione gli assegna. E una volta che la Consulta si sarà pronunciata, le conseguenze saranno irrimediabili e irreversibili, in questa legislatura e in tutte quelle a venire.
Il tempo sta per scadere. Personalmente sul fine vita ho idee molto chiare. So anche che le mie idee in questo Parlamento faticherebbero ad affermarsi come maggioritarie. Ma so che è il Parlamento il luogo nel quale confrontarle. Per questo vorrei che i deputati e i senatori di ogni partito e di ogni schieramento fossero disponibili a un sussulto di dignità, senza trincerarsi né dietro steccati ideologici, né dietro contratti di governo che hanno già dimostrato la loro caducità su altri temi e non possono imbrigliare la potestà legislativa a fronte di eventi imprevedibili. Sveglia Parlamento, è in gioco il fondamento dell’essere umano.