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Le accuse all’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano, continuano a sgretolarsi. L’ultima puntata del processo a suo carico, infatti, ha portato ad uno dei colpi di scena più importanti dell’intera vicenda: la ritrattazione delle accuse da parte del grande accusatore del re dell’accoglienza. Quel Francesco Ruga, commerciante della città dei bronzi, che davanti ai finanzieri lo aveva accusato di concussione, facendo partire tutta la macchina giudiziaria che ha messo la parola fine all’accoglienza a Riace. Ma in aula ha ritrattato tutto di fronte all’evidenza, schiacciante, delle sue contraddizioni.
Secondo l’accusa, che prende le mosse da una denuncia presentata nel dicembre 2016 dal commerciante, Lucano avrebbe minacciato Ruga, assieme al presidente dell’associazione “Città Futura”, Fernando Antonio Capone, affinché emettesse false fatture. Non in relazione all’importo, bensì in merito ai prodotti acquistati presso il suo negozio. «Mi dissero: se non scrivi detersivi non prendi neanche una lira», aveva dichiarato Ruga. Parole che lunedì l’uomo ha ripetuto in aula, ribadendo, dunque, la tesi dell’accusa. Ma il commerciante è crollato in fase di contraddittorio. In primo luogo è stato evidenziato che dopo la denuncia Ruga avrebbe continuato ad emettere fatture per farsi rimborsare i bonus dell’accoglienza. Ma il colpo di scena è arrivato quando la difesa ha letto in aula i messaggi di stima invitati da Ruga all’ex sindaco, tra i quali quello in cui dichiarava: «So che sei una persona perbene». Affermazione che nulla ha a che vedere con la denuncia sporta dall’uomo, che di fronte all’evidenza non ha saputo spiegare la contraddizione, ritrattando l’accusa nei confronti di Lucano.
Era stato già il gip ad evidenziare le incongruenze nell’ordinanza di custodia cautelare, nella quale si legge una critica feroce all’operato della procura e della Guardia di Finanza. Secondo Domenico Di Croce, infatti, sin dal principio la più grave delle accuse, quella di concussione, sarebbe stata infondata: Lucano e Capone, secondo la Procura avrebbero abusato della propria posizione per costringere il titolare di un esercizio commerciale a predisporre e consegnare fatture false per 5mila euro. Ma «gli inquirenti - scrive il gip - non hanno approfondito con la dovuta ed opportuna attenzione l’ipotesi investigativa», fidandosi delle parole del commerciante - che avrebbe dovuto essere ascoltato in presenza di avvocato, in quanto indagato -, le cui dichiarazioni non sono mai state dimostrate. Una «persona tutt’altro che attendibile», sentenzia il giudice. Che elimina anche dubbi sulla malversazione: i soldi dell’accoglienza, non sarebbero stati usati per «soddisfare interessi diversi da quelli per i quali erano corrisposti». Una tesi «non persuasiva, poiché congetturale».
Secondo il giudice, gli investigatori non avrebbero trovato riscontri. Sull’affidamento diretto dei servizi di accoglienza, ad esempio, il giudice parla di «vaghezza e genericità del capo di imputazione», tale da non essere idoneo «a rappresentare contestazione provvisoria alla quale validamente agganciare un qualsivoglia provvedimento custodiale». Il solo riferimento a «collusioni ed altri mezzi fraudolenti che avrebbero condotto alla perpetrazione dell’illecito si risolve in formula vuota, ossia priva di un reale contenuto di tipicità». Non ci sarebbe dunque modo di capire, dalle mille pagine di richiesta presentate dalla Procura, quali motivazioni avrebbero sorretto l’ipotetica scelta di affidare i servizi senza alcuna procedura negoziale. E il giudice si era spinto oltre, parlando di «errore tanto grossolano da pregiudicare irrimediabilmente la validità dell’assunto accusatorio», laddove la Procura ipotizzava l’acquisto di derrate alimentari non destinate agli immigrati e utilizzate per fini privati, con rendiconto di costi fittizi per ricevere dal ministero dell’Interno oltre 10 milioni di euro. Ma la Guardia di Finanza ha quantificato come illegittime tutte le somme incassate, senza considerare «l’effettivo svolgimento da parte di tali enti del servizio loro assegnato», evidenziato invece dal gip. Una «marchiana inesattezza», aggiungeva Di Croce, secondo cui «gran parte delle conclusioni cui giungono gli inquirenti appaiono o indimostrabili, perché allo stato poggianti su elementi inutilizzabili (...) o presuntive e congetturali o sfornite di precisi riscontri estrinseci». Giudizio simile formulato nel caso dell’accusa di aver firmato 56 determinazioni di liquidazione false per il rimborso dei costi di gestione dei servizi Cas e Sprar.