I negoziatori hanno negoziato e dal cilindro dei sei esponenti delle delegazioni del Ppe, del Pse e dei Liberali è uscito fuori un coniglio in apparenza identico a quello che era stato riposto nel cassetto otto giorni fa a Bruxelles per l’impuntatura di Giorgia Meloni. La sola differenza è che i popolari l’hanno spuntata nel braccio di ferro con i socialisti: il presidente del Consiglio europeo sarà il portoghese Antonio Costa, non particolarmente gradito al Ppe, ma resterà in carica “inizialmente” solo per metà legislatura.

Insomma la strada per quella staffetta che reclamava il Ppe sembra spianata anche se si sa come vanno spesso le staffette. Del resto l’intesa prevede proprio la valutazione della situazione a ridosso della scadenza dei due anni mezzo della presidenza Costa. Insomma un rinvio.

L’Alta commissaria europea sarà la premier estone Kaya Kallas, anche lei non troppo gradita dai popolari, e soprattutto Ursula von der Leyen è indicata dai sei mediatori come candidata alla successione di se stessa come presidente della Commissione europea senza alternative o subordinate. Segno che per i popolari il nome è definitivo e indiscutibile. Manca nel mazzo l’indicazione esplicita per la presidenza del Parlamento ma sul nome di Roberta Metsola non ci dovrebbero essere problemi di sorta. Potrebbero però permanere sulla durata del mandato. Di solito il presidente passa la mano a metà mandato e i socialisti si aspettano che la premier maltese targata Ppe si uniformi al costume ma il Ppe era invece contrario, almeno prima che i socialisti mollassero sulla staffetta per la presidenza del Consiglio europeo.

La decisione di anticipare l’intesa senza aspettare il Consiglio europeo di giovedì e venerdì prossimi, quello che dovrà indicare ufficialmente i candidati con il voto a favore di almeno 15 capi di governo su 27 in rappresentanza di almeno il 65 per cento della popolazione europea risponde chiaramente all’esigenza di evitare incidenti in sede di consiglio.

I guai avrebbero potuto essere costituiti, come appunto nella cena di Bruxelles, dalla richiesta di Macron e Scholz di tagliare fuori Giorgia Meloni, in quanto esponente di una destra intorno alla quale andrebbe steso un robusto cordone sanitario senza sottilizzare tra i duri di Identità e Democrazia, i senzatetto come AfD e Orbàn e i più “presentabili” Conservatori.

L’intera manovra allestita oggi sembra ispirata da una diplomazia formale che sconfina nell’ipocrisia. I rappresentanti della maggioranza Ursula hanno deciso senza consultare Ecr, il gruppo dei Conservatori di cui Meloni è presidente, ripetendo lo sgarbo che aveva portato al fallimento dello scorso vertice informale. Ma lo hanno fatto lontano da Bruxelles, dunque secondo modalità che stemperano lo sgarbo permettendo tuttavia affermare che non ci sono state trattative con Ecr. La trattativa in realtà c’è stata ma non con la presidente dei Conservatori bensì con quella del Consiglio italiano, e poco male se si tratta della medesima persona.

A Giorgia, in veste di premier, ha telefonato nel pomeriggio uno dei mediatori per assicurarle che all’Italia sarà assegnato un commissario di rilievo. Per il resto tutto è delegato a colloqui diretti tra la premier italiana e la presidente von der Leyen. I rapporti tra le due sono sempre stati ottimi, entrambe hanno bisogno l’una dell’altra: si può scommettere sul fatto che troveranno l’accordo senza troppi sforzi. Meloni non ha ancora preso una decisione finale sul nome da indicare ma è quasi certo che alla fine opterà per Raffaele Fitto, tenendo per sé (e per il suoi sottosegretari di fiducia Mantovano e Fazzolari) l’interim sulla gestione del Pnrr, il delicatissimo ruolo ricoperto sin qui da Fitto.

Diplomazia a parte, la chiave per interpretare la direzione che l’Unione si avvia a prendere sarà la linea politica, cioè le priorità illustrate dalla presidente uscente e rientrante, e di conseguenza il rapporto con i Verdi. I Popolari sono decisi a tenerli fuori dalla porta negando ogni consenso alle richieste che pongono come condizione per votare von der Leyen, già bollate come “ecologismo fondamentalista”. Senza i Verdi i voti di una parte di Ecr, in particolare quelli italiani di FdI diventano essenziali per passare la prova del voto del Parlamento, il prossimo 18 luglio.

Se si aggiungono posizioni praticamente identiche a quelle della premier italiana sull’immigrazione quali quelle illustrate domenica scorsa dal presidente affermare che la destra non fa parte della maggioranza europea può essere formalmente corretto ma nella sostanza sarebbe più o meno una presa in giro.

Oppure, a preferenza, una formula diplomatica che va benissimo a tutte le parti in causa. A Giorgia, che ha tutto l’interesse a far parte della maggioranza senza dirlo. A Socialisti e Liberali che devono poter affermare di aver chiuso le porte in faccia alla destra. Ai Popolari che miravano precisamente a un accordo di questo tipo, che sposta a destra l’Europa senza cambiamenti traumatici della maggioranza.