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«Meglio le larghe intese che niente, l’alternativa sarebbe un non governo incapace di affrontare la partita con il debito e con l’Europa: in pratica un disastro che renderebbe inutili queste elezioni». Ministro per la Funzione pubblica del primo governo Berlusconi, e poi dei Beni culturali nel secondo, Giuliano Urbani insegna oggi Scienza della politica all’Università Bocconi di Milano. Ma, allievo di Bobbio, è stato tra i fondatori di Forza Italia e gli animatori della rivoluzione liberale. Si deve a lui, tra le altre cose, la celebre definizione del Polo del buon governo che battezzò la prima avventura vincente del centrodestra nel 1994.
Sono passati 25 anni ma quel Polo continua a litigare, Berlusconi e Salvini continuano a suonarsela sul deficit, sul candidato premier Tajani che non piace alla Lega, e sui dazi doganali in stile Trump. La coalizione è a rischio?
I contrasti del centrodestra sono indicativi delle difficoltà in cui si muovono più o meno velleitariamente tutti i partiti: stanno insieme, ma ciascuno si riferisce a elettorati non compatibili. Il vero nodo è però la questione del deficit. Abbiamo un debito pubblico enorme, e pensare di risolvere le cose in poco tempo è un’illusione. Per affrontare il tema con successo, servirebbero coalizioni stabili e coerenti. Proprio quello che manca oggi: sia nel centrodestra, dove nessuno degli alleati supera il 20 per cento, sia nel centrosinistra. D’altro canto tutti promettono in queste ore, dalle pensioni all’economia, ricette miracolose. Ma la verità è che nessuna delle forze politiche è in grado di mantenere questi impegni, né di garantire all’Europa un programma di risanamento finanziario decennale.
Il centrodestra punta sulla flat tax e sull’abolizione della Fornero, che figura anche nel programma del M5s. Promesse vane quindi?
Si tratta di obiettivi insostenibili. È vero, sul deficit c’è qualche margine, ma non si può pensare solo all’oggi e dimenticare il domani: bisogna prima pensare a intaccare il debito con un piano ventennale. Negli ultimi 5 anni è cresciuto di altri 210 miliardi, ma nei programmi elettorali su questo - il problema dei problemi - non c’è traccia.
Il M5s annunciano quella “rivoluzione liberale” pensata da lei e Martino nel ’ 94, ma propongono al contempo il reddito di cittadinanza e 50 miliardi di investimenti. Che effetto le fa?
Le due cose non si tengono insieme. Si tratta di una contraddizione clamorosa. Chi annuncia di voler fare l’una e l’altra cosa, bara. Sa di dire una bugia.
Ma quella “rivoluzione liberale” di cui fu promotore, può essere ancora fatta?
Io suggerisco di mettere la rivoluzione liberale nel cassetto. Non è più attuale per due ragioni storiche. Innanzitutto, dove sono gli Antonio Martino nel Parlamento di oggi? Non ne sono rimasti più di un paio. E di liberali è rimasta a corto anche Forza Italia. Nel nuovo programma, di quella rivoluzione liberale di 25 anni fa, non c’è nessuna traccia.
A che cosa si riferisce?
Il programma di allora era animato da uno spirito di responsabilità individuale e civile che oggi non c’è. Alla base del liberalismo, da Mazzini a Hume, sono stati posti i diritti per difendere se stessi e i doveri che consentono la vita associata sulla base dei primi. Allora la rivoluzione liberale di Berlusconi fu facile: nacque in opposizione a interlocutori precisi come la sinistra di Occhetto, e l’insensibilità della classe dirigente democristiana, quella che aveva fatto il debito. Oggi lo scenario è diverso: è solo un pasticcio indemoniato, dove tutti rincorrono tutti.
Rispetto al ’ 94 il vero discrimine che divide Forza Italia dalla Lega è l’Europa. A che cosa si deve la divaricazione?
Vecchi liberali come me e Martino sono sempre stai europeisti, certo. Ma non siamo per quest’Europa terrificante che è stata creata dopo Maastricht. Pensavamo fossimo in marcia verso una federazione di Stati, e invece ci siamo ritrovati di fronte a un’egemonia tedesca che ha creato un’Europa immobile su tutti i grandi temi: una cosa ridicola.
Martino ha difeso sul nostro giornale la flat tax. Lei non condivide?
È un punto sul quale io e lui discutiamo sin dal ’ 94. Altrove può aver avuto successo, ma non è certo che in Italia possa funzionare. Si tratta di provare, perché no. Ma è un atto di fede, di sicurezze non ce ne sono. Brunetta, vecchio socialista, ne è entusiasta: ha scoperto il liberalismo e ne sono contento. Ma si dovrebbe calare la misura in un contesto di stabilità politica e di riforme istituzionali.
Voi ci provaste. E ci ha provato anche Renzi, ma il referendum ha cancellato tutto. Un’occasione persa?
Sarò molto sincero. La riforma di Renzi era brutta, che più brutta non si poteva immaginare. Ma io al referendum ho votato sì, perché andava comunque nella direzione giusta che aveva individuato anni prima il centrodestra. Era un tentativo sul quale vale la pena investire, per dare maggiore efficienza alle nostre istituzioni.
Dal Jobs Act alle banche, la sinistra ha accusato Renzi di fare politiche di centrodestra. Riconosce in lui un erede del suo schieramento?
Bufale. Se fosse stato vero, Renzi non avrebbe perso il referendum. Il segretario dem ha certamente messo in campo proposte moderate, ma non è riuscito a creare un popolo a favore delle stesse. Le ha presentate infatti con i classici argomenti dei preti spretati. Ha perso perché ha usato le parole tipiche degli ex comunisti che hanno deciso di annacquare il loro vino.
La batosta dello scorso novembre ci ha consegnato un leader Pd più cauto. Siamo di fronte a un’evoluzione politica?
Non credo. Per uscire dal tunnel Matteo dovrebbe uscire definitivamente dalle incertezze: se continua a fare il socialdemocratico non fa molta strada. Dovrebbe abbracciare invece un profilo liberale. Ma dire se ci riuscirà è difficile da prevedere.
Alleanze in rotta, continui rimescolamenti, rincorse. Che tipo di verdetto si attende dalle urne il 4 marzo?
Temo si tratti di elezioni completamente inutili. Quasi certamente non avremo una maggioranza stabile ed efficiente. Mancheranno pertanto due requisiti essenziali: idee e chiare e prospettive di lungo termine senza le quali partiamo sconfitti nella battaglia più importante. L’Europa di oggi farebbe rivoltare Spinelli nella tomba. Cambiarla in senso federalista e liberarla dall’egida della Merkel, sarebbe la missione fondamentale in un momento in cui la Cancelliera ha il fiato corto. Quello che va bene per la Germania, non va bene per noi. Nella politica monetaria non possono più comandare i tedeschi. Ma senza un governo stabile, rischiamo di tenerci Schaeuble.
Gentiloni ha chiuso alle larghe intese. Ma allora che cos’altro si può fare?
L’alternativa è avere un non governo. A differenza che in Belgio e in Spagna, dove ci sono strutture amministrative forti in grado di surrogare il Parlamento, in Italia si rischia la paralisi. Meglio quindi le larghe intese che niente. Ma si tratterebbe comunque di un governo incapace di prendere di petto i problemi strutturali che tengono in stallo il Paese: la partita con l’Europa e quella con il debito.