Fumata nera. L’incontro tra la candidata von der Leyen e la delegazione dei Conservatori non raggiunge alcuna intesa. «È stata un’ora intensa», si limita a commentare la presidente uscente e pronta a tutto pur di rientrare a stretto giro. Ma quadrare il cerchio in questo caso è impossibile.

Il programma della presidente sull’immigrazione sarebbe perfetto per Giorgia Meloni ma sul Green Deal, altro cavallo di battaglia di tutte le destre europee inclusa quella interna al Ppe, Ursula non concede niente di concreto. Non ripete la formuletta «Green deal», del resto introdotta proprio dalla sua Commissione. Assicura che l’approccio alla riconversione ecologica «sarà pragmatico», frase che naturalmente ciascuno può interpretare a modo proprio. Ma di più non può concedere. Ha bisogno dei voti dei Verdi e quei voti non potrebbero mai arrivare a fronte di un passo indietro ufficiale sull’innominabile «Patto Verde».

La scelta di cercare i voti tra gli ecologisti invece che tra i Conservatori dipende solo in parte dai numeri. I Verdi portano 50 voti, FdI solo 24. In Ecr ci sono altri sei eurodeputati a favore della candidata del Ppe, 3 cechi e tre fiamminghi, ma il loro voto è comunque assicurato. Il pallottoliere spiega però solo in minima parte: Socialisti e Liberali, essenziali per l’elezione della candidata ma anche per la successiva tenuta in Parlamento, vogliono i Verdi e vogliono che Ecr sia tenuta fuori dalla porta quanto più possibile. Le altre delegazioni Ecr, a partire dai polacchi del Pis che pure cinque anni fa avevano votato per Ursula erano irremovibili anche prima dell’incontro. Figurarsi dopo.

La premier italiana brucia dalla voglia di votare comunque a favore dell’amica e alleata. Non farlo significherebbe ammettere il fallimento completo. Votare no, ipotesi non del tutto esclusa ma molto improbabile, vorrebbe dire ritrovarsi schiacciati sulla linea dei Patrioti, oltretutto in posizione subalterna. L’astensione, che nel concreto equivale al voto contrario ma con una sfumatura diplomatica in più, implicherebbe comunque riconoscere di non essere riuscita né a spostare la Commissione verso destra né tantomeno di aver conquistato un posto di rilievo in Europa: al contrario, mai l’Italia era stata trattata così sfacciatamente come una parente povera e priva di influenza reale.

Il cognato Lollobrigida cerca di vedere il bicchiere mezzo pieno sul fronte Ambiente: «Dividerei la presidenza von der Leyen in due fasi. C’è una prima parte che non corrisponde all’interesse della produzione. Ma negli ultimi mesi lo scenario è cambiato, l'atteggiamento sul Green Deal si è modificato. Oggi si parla di pragmatismo».

Sono i toni di chi cerca un appiglio anche negando l’evidenza. «Quello che ci interessa è il ruolo dell’Italia nella nuova Commissione», aggiunge il ministro dell’Agricoltura derubricando il confronto politico a un mercanteggiamento su quali competenze spetteranno all’Italia. Non che questo non pesi nella scelta difficile della premier. Però risolve molto meno di quanto non appaia. Il commissario «pesante» ci sarà comunque perché bisogna sì umiliare Ecr, considerata appena meno impresentabile dei Patrioti, ma non l’Italia. Le deleghe saranno oggetto di trattativa futura, per ora la premier non può andare oltre le buone intenzioni private della candidata.

Gli elementi che incidono sono di altra natura. Su un piatto della bilancia la necessità, per una destra che a differenza che in quasi tutti gli altri Paesi è al governo e che ha di fronte una fase molto difficile, di mantenere buoni, anzi ottimi rapporti con la Commissione. Dall’altro il rischio di ritrovarsi isolata proprio a destra non solo nell’Unione ma, se vincerà Trump, nell’intero occidente e di conseguenza spinta dalla forza delle cose verso un ruolo ancillare nei confronti del Ppe. Un orizzonte che per la patriota di palazzo Chigi somiglia a un film dell’orrore. È probabile che l’ultimo tentativo di aprirsi una via per votare Ursula Giorgia Meloni, assente all’incontro di ieri, lo farà di persona, in quel colloquio telefonico con Ursula di cui si vocifera da giorni senza che sia neppure chiaro se prima del voto sulla presidenza di domani a Strasburgo ci sarà davvero.

Quel voto, nonostante l’intensissimo lavorìo diplomatico della presidente e candidata, resta a rischio. Von der Leyen ha promesso qualcosa a tutti, pur di ottenere i voti necessari per restare presidente. Ma quando si promette qualcosa a tutti, si scontentano anche, per un verso o per l’altro, tutti. L’appoggio dei Verdi rischia di costarle il voto non solo di FdI ma anche di una parte dei Popolari che con gli ecologisti non volevano e in cuor loro non vogliono avere niente a che fare.

La linea sull’immigrazione, in compenso, combacia così perfettamente con quella di Meloni che non si capisce come i socialisti e in particolare il Pd possano votarla. Zingaretti sbandiera la solita necessità di fermare «questa destra». Qualcuno si convincerà. Forse non tutti. I 361 voti necessari perché domani sera Ursula von der Leyen sia ancora presidente della Commissione europea restano incerti. Ieri Roberta Metsola è stata ri- eletta con voto plebiscitario presidente del Parlamento, 562 voti su 699 votanti, anche se tra due anni e mezzo, a metà mandato, dovrebbe lasciare il posto a un socialista. Ma sul voto di ieri non c’erano ombre o dubbi. Per Ursula la strada sarà più impervia comunque.