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Silvio Berlusconi, presidente di Forza Italia
Lo show è stato replicato tante di quelle volte su tutte le emittenti grandi e piccine che persino i più distratti si sono resi conto di quanto decisamente il vicepresidente Giorgio Mulè abbia cercato di fermare lo scapigliato Giovanni Donzelli prima che iniziasse a tirare sul Pd. Il medesimo Mulè avrebbe potuto presiedere il giurì d'onore che dovrà esprimersi sul fattaccio. Fratelli d’Italia ha fatto sapere che non avrebbe gradito: molto meglio un 5S come Sergio Costa, che sarà pure fiero oppositore ma su questioni di galera è molto più vicino al sottosegretario Andrea Delmastro, quello che inneggiava ai pestaggi di Santa Maria Capua Vetere che non a Mulè, l'alleato azzurro.
È vero, Mulè, per quanto si affanni a smentire, fa parte di quel folto drappello forzista che vede il governo col fumo negli occhi da ancora prima che giurasse. Però anche il ministro Antonio Tajani, che dell'esecutivo è vicepresidente e capeggia l'altra metà del partito di Arcore, quella “governista”, è stato gelido nell'appoggiare gli scalmanati di Giorgia e ci ha tenuto a sottolineare che a quegli inverecondi attacchi contro il Pd Forza Italia non ha partecipato.
L'intemerata di Donzelli, sulla scorta delle carte passategli da Delmastro, non è piaciuta neppure alla Lega. Matteo Salvini il Ruggente non è andato oltre un generico ed ecumenico “Bboni, state bboni” degno di un principe dalla commedia all'italiana. Ma sul versante leghista la faccenda è di scarsa importanza: l'importante era che la premier, obtorto collo, si decidesse a far partire prima del voto lombardo il ddl sull'autonomia differenziata e quel prezioso pacco dono è arrivato in tempo. Certo la strada è ancora lunga ma fino a che da palazzo Chigi non arrivano sgambetti su quel fronte dal Carroccio non ci si possono aspettare brutti scherzi.
Per un furibondo Cavaliere il quadro è ben diverso. Piaccia o non piaccia qui si parla di giustizia, del capitolo cioè che per Arcore è tanto importante quanto l'autonomia per via Bellerio. Non che il caso Cospito in sé pregiudichi necessariamente alcuno dei passaggi ai quali Silvio Berlusconi tiene ma l'uomo non è nato ieri e sa annusare l'aria. Sulla questione il ministro Carlo Nordio si è rimangiato come se nulla fosse anni e anni di stentoree prese di posizione critiche col 41 bis. Per amore o per forza ha offerto piena copertura a un sottosegretario messo lì da Giorgia apposta per commissariarlo. Il precedente balletto sulle intercettazioni, che già era piaciuto pochissimo al capo di Fi, ha trovato piena conferma: sul ministro Arcore non può contare più che tanto e la riforma della giustizia è in altissimo mare.
Pesa il calcolo delle opportunità politico- propagandistiche, che per la premier è inequivocabile. La sua base elettorale, reale e potenziale, non è certo attenta alle garanzie e ha una visione della giustizia non certo vicina a quella di Beccaria. La premier sa di aver già deluso quella base e prevede che dovrà farlo ancora. Tradirla anche su un fronte che forse per la destra radicale è più identitario di ogni altro, persino più delle campagne contro l'immigrazione, sarebbe troppo. Ma non c'è solo questo, non è solo questione di opportunismo. Fi ha davvero nella propria cultura un versante liberale e quindi garantista, anche se meno pronunciato di quanto il fondatore e monarca abbia cercato di far apparire. Per FdI e per la Lega è vero il contrario. Condividono una cultura repressiva e si tratta di un terreno in cui l'incontro da un lato, la competizione giocata sul terreno della maggior intransigenza dall'altro, è inevitabile. Berlusconi si sente all'angolo e morde il freno.
Se i sondaggi saranno confermati, le elezioni in Lazio e Lombardia assegneranno a FdI una prevalenza e dunque un predominio assoluti. Non è affatto detto però che questo sia un fattore di stabilizzazione. Se la Lega non ha alternative, infatti, Fi può contare sul gioco di sponda e sull'avvicinamento con il Terzo Polo. Giura che la destra non si dividerà mai ma non è facile che si rassegni a un ruolo irrilevante in una coalizione che lui stesso avrebbe definito «troppo spostata a destra». La scelta di far saltare il tavolo, a suo tempo, è tutt'altro che certa. Ma neppure da escludersi.