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Nello scontro referendario che diventa giorno dopo giorno sempre più incandescente, il Partito Assente, guidato dal Leader Riluttante, produce un grande vuoto esattamente al centro del panorama politico italiano. Un buco nero nel quale precipitano e vengono inghiottite le speranze, le ambizioni e le aspettative di una fetta fondamentale dell'elettorato: il serbatoio dei moderati. Che anela oggi più che mai ad individuare una rappresentanza politica che si faccia portavoce e tramite dei suoi interessi e invece si ritrova nella costrizione di dover scegliere tra il Vaffa grillino, tanto protestatario quanto inconcludente; l'amletismo di un Berlusconi lontano ed indecifrabile; l'inafferrabilità di Stefano Parisi che sciorina idee sperando - di più non può fare - di inanellare un dì i voti.Il centrodestra che non c'è è l'elemento che più di tutti, e clamorosamente, manca all'appello di un confronto decisivo perché riguarda le regole del gioco politico, mentre Matteo Renzi satura i talk show vincendo facile contro giornalisti giacché gli avversari latitano; Salvini pialla le crescenti tensioni sotterranee al suo Carroccio prima che diventino crepe; la Meloni invoca faccia a faccia sempre e inesorabilmente disattesi. Per cui il paradosso è che il vero leader del No non è né un grillino né un esponente forzista (il sanguigno Brunetta si batte come un leone: ma nel deserto, appunto) bensì un'icona della sinistra che si sente tutt'altro che rottamata come Massimo D'Alema. Il colpo d'occhio al parterre della riunione indetta dall'ex premier con Gaetano Quagliariello, già ministro delle Riforme del governo Letta e studioso di De Gaulle, era rivelatore: Gianfranco Fini assieme al capo dei senatori Fi Paolo Romani; Beppe Civati appena qualche fila dopo Maurizio Gasparri; il bersaniano Davide Zoggia assiepato con Paolo Cirino Pomicino; il leghista Giorgetti vicino all'Udc Lorenzo Cesa. Uno schieramento trasversale che in nessun caso il fondatore di Forza Italia e Signore di Arcore sarebbe in grado di allestire.Per la verità c'è chi, aspettando il rientro dell'ex Cav e il rituale vertice che ne segue, è sicuro che ci sia del metodo in questa lacunosità. Che sia voluta, insomma. Perché è fin troppo accattivante assistere allo spettacolo - non nuovo ma comunque succolento - della caleidoscopica capacità del Pd di dilaniarsi, autodistruggendosi all'interno di una guerra civile da cui è saggio allontanarsi.Considerato poi che i conti veri si fanno dopo. Dopo il 4 dicembre, cioè. E Berlusconi senza muovere un dito o quasi rischia in ogni caso di ritrovarsi nel bel mezzo del crocevia dove si fanno le scelte. Se infatti l'inquilino di palazzo Chigi vince, non è escluso che - al netto dell'intervento della Corte Costituzionale - provi a riallacciare i fili del dialogo con Silvio per modificare l'Italicum al fine di evitare di consegnare, con il ballottaggio, l'Italia nelle mani dei pentastellati. Se invece prevale D'Alema, chi può chiudere la porta ad un esecutivo di larghe intese per un meccanismo che pure superi l'Italicum e porti il Paese alle elezioni, all'ombra di una rinnovata intesa tra i due dioscuri dell'ex Bicamerale?Può essere. Resta da capire quanto sia anche conveniente. Perché il pregio di rimanere in poltrona è sicuramente di stare comodi, però nel ruolo di spettatori: mai di protagonisti.Già. Infatti comunque la si rigiri in entrambi gli scenari il dato inquietante è che l'elettorato moderato, il bacino di voti che spostandosi può far prevalere l'uno o l'altro dei contendenti, finisce per recitare l'immiserita parte di massa di manovra. Deve cioè scegliere se premiare Renzo o Massimo. Di mettere il bastone del comando nelle mani «di un esponente dello schieramento avverso», come avrebbe detto Walter Veltroni, sempre per rimanere a sinistra. Ma è inevitabile. Se il leader manca o si eclissa, il massimo che il copione prevede è la subalternità. Difficile che milioni di italiani si acconcino a svolgere un ruolo così marginale. Ed è anche per questo che la gran parte di loro ha voltato le spalle e dai seggi si allontana sempre più: votare gli altri, infatti, non è mai un granché.