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La manifestazione di protesta a sostegno dell'anarchico Alfredo Cospito
Non so se hanno ragione quelli che, più o meno sarcasticamente, sparando un po’’ come sulla Croce Rossa, hanno previsto qualche piccolo guadagno per l’annoiato e il noioso congresso addirittura “costitutivo” del Pd dal caso del detenuto anarchico Alfredo Cospito. Che, in sciopero della fame da più di 100 giorni per sottrarsi al regime speciale dell’articolo 41 bis, e sottrarvi tutti gli altri che vi sono sottoposti, cioè per eliminare il cosiddetto carcere duro, si è procurato, fra l’altro, anche l’attenzione del Pd, appunto. Che gli ha mandato in visita penitenziaria non uno, non due, non tre ma quattro parlamentari in delegazione, guidata dalla capogruppo della Camera Debora Serracchiani. E composta - credo o temo con criteri più di corrente che di merito o competenza, non mancata tuttavia per la presenza di Andrea Orlando e di Walter Verini, essendo stato il primo anche guardasigilli e il secondo responsabile dei problemi della giustizia nel partito, prima di diventarne il tesoriere.
Quella visita in delegazione ha avuto la sfortuna da una parte ma anche la fortuna dall’altra di una enorme risonanza politica per la vivacissima polemica che ha voluto farne alla Camera il sostanziale luogotenente di Giorgia Meloni nel suo partito, Giovanni Donzelli. Il quale ha avvertito e denunciato puzza di comprensione, solidarietà e persino incoraggiamento non solo verso il detenuto anarchico, ma anche verso i detenuti di mafia e altre organizzazioni criminali organizzate chiusi in celle vicine e indicati dallo stesso Cospito.
Quest’ultimo, nonostante la durezza del trattamento previsto dall’articolo 41 bis, aveva avuto la possibilità - riferita in un rapporto della polizia penitenziaria ai superiori - di scambiare almeno con qualcuno di quei collegi detenuti,, chiamiamoli così, opinioni, auspici e quant’altro per proseguire e inasprire la lotta al regime speciale di detenzione studiato a suo tempo per garantire un isolamento assoluto degli interessati, quasi murandoli vivi.
Il Pd, non rimasto insensibile all’invito di Cospito di interessarsi anche degli altri detenuti in regime duro, si è trovato così sospettato, anzi accusato esplicitamente da Donzelli e dalla sua parte politica di essere quanto meno tentato dal cambiare linea generale sul 41 bis, cioè di capovolgerla. Cosa, questa, che per quanto smentita dalla capogruppo della Camera con parole indignate, e richieste multiple di dimissioni all’interno della maggioranza e del governo, ha finito per confondere ancora di più le acque congressuali al Nazareno. Dove il proposito di cambiare tutto e tutti, persino il nome e il documento identificativo del partito, è stato dichiarato, reclamato e quant’altro dal momento della pur scontata sconfitta elettorale del 25 settembre.
Ecco, a questo punto, nonostante l’ottimismo o gli auspici degli osservatori favorevoli al Pd, non so più - come accennavo - se il caso Cospito è stato ed è più un affare o un ulteriore problema o danno per il lungo percorso congressuale del maggiore partito di opposizione, almeno secondo i risultati elettorali di quattro mesi fa, senza tener conto dei sondaggi che lo hanno successivamente visto sorpassato dal Movimento 5 Stelle.
Di guai, certo, l’affare Cospito ne ha creati anche alla maggioranza e al governo, uniti nel difendere il regime penitenziario speciale del 41 bis ma alquanto divisi sul modo in cui gestirlo e sostenerne il mantenimento. Risulta, per esempio, che la Meloni non abbia condiviso e gradito i toni, quanto meno, dell’attacco del suo pur fedelissimo Donzelli al Pd. Né Carlo Nordio ha gradito il modo col quale il deputato in fondo collega di partito o area, essendo stato il guardasigilli eletto nelle stesse liste, abbia saputo del rapporto dichiaratamente riservato del dipartimento penitenziario. Glielo ha rivelato, in particolare, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, anche lui collega di area o partito. e in più coinquilino di Donzelli in uno stesso appartamento a Roma.
Immagino la fatica che deve aver fatto la Meloni, prima di volare a Berlino e Stoccolma per altre missioni internazionali, dopo quelle in Algeria e in Libia, per convincere l’imponente Nordio a buttare un po’ d’acqua sul fuoco non continuando ad attendere l’esito di un’indagine avviata dalla Procura di Roma, ma anticipando la natura non segreta, e quindi divulgabile, di quel maledetto rapporto. E chissà se l’acqua di Nordio basterà anche a dissetare i magistrati inquirenti per chiudere il caso senz’altri inconvenienti. Certo è che il clima è rimasto teso e ci si può francamente aspettare di tutto, fuorché - credo - la crisi di governo sognata dai più accaniti avversari, specie di Nordio. Al quale, sotto sotto, non si vorrebbe permettere neppure di formalizzare il suo progetto garantista di riforma della giustizia.
C’è tuttavia in questo, francamente, desolante spettacolo di tenuta politica e nervosa di tutti gli schieramenti in campo una cosa che conforta un vecchio cronista parlamentare quale ho il sacrosanto diritto di considerarmi per l’età che ho e per gli anni trascorsi raccontando la politica. Tutto questo casino - scusate il termine pur entrato ormai nelle conversazioni correnti - è scoppiato non fuori ma dentro il Parlamento. Che si è improvvisamente rivitalizzato, non ristretto come in una cella del 41 bis ad approvare leggi di bilancio, decreti legge e quant’altro coi giorni o minuti contati. Non umiliato a discutere per ultimo di vicende più o meno scandalose o controverse sparate dal giornale di turno per la soffiata di qualche ufficio o ufficiante giudiziario o politico.
Evviva il Parlamento: altro che l’aula sorda e grigia alla quale si temeva che fosse destinato con la formazione del governo della Meloni. Chi si rivede! Persino un giurì d’onore reclamato e ottenuto dalle opposizioni per valutare il comportamento di quel grandissimo rompiscatole che si è rivelato, per fortuna della Camera, Giovanni Donzelli.