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«I diritti vanno fatti rispettare anche nella società digitale, perseguendo i reati online come si fa con quelli offline». E, secondo il Presidente dell’Autorità garante della privacy Antonello Soro, l’unica via è quella di «armonizzare i principi e creare cooperazione tra gli Stati», che per molto tempo hanno considerato il web una terra di nessuno.
Presidente, il ministro Orlando ha sostenuto che il web va regolamentato per arginare l’odio e le cosiddette “bufale”. Una prospettiva possibile oppure fuori dalla portata delle istituzioni?
A mio modo di vedere, la discussione dovrebbe essere complessiva: le false notizie sono solo un aspetto di un problema più generale, che riguarda il potere degli Stati e delle istituzioni democratiche di far rispettare i diritti nella società digitale. E’ questo il tema da risolvere.
Difficile anche perché le parti in causa sono difficili da identificare?
Per molto tempo i gestori delle piattaforme sul web si sono definiti “imprese tecnologiche” e dunque assolte dagli obblighi di responsabilità rispetto al servizio di informazione che di fatto fornivano. I cittadini, invece, hanno per lungo tempo enfatizzato la dimensione “aregolamentata” della rete, ideale in quanto spazio libero nel quale nessuno più filtrare alcuna manifestazione del pensiero. Questi due profili si sono combinati: da una parte i gestori, che rivendicavano competenza solo tecnologica, dall’altra i cittadini che hanno avuto la presunzione di una libertà senza regole.
In realtà, invece?
In realtà le due cose non sono del tutto vere: i gestori hanno in mano un potere sempre più largo di condizionamento dei cittadini e lo fanno attraverso una raccolta ed elaborazione di informazioni, che finora hanno largamente usato per orientare i consumi e anche i comportamenti, per fini non esclusivamente commerciali.
In questa ricostruzione, le istituzioni possono essere parte attiva?
Gli Stati hanno a lungo rinunciato a gestire questa nuova dimensione online della vita. In questa fase, però, è necessario assumere consapevolezza di questo squilibrio: il molto potere delle mani di poche imprese che gestiscono le piattaforme con finalità di condizionamento non solo di mercato e la speculare debolezza degli Stati.
Servirebbero nuove autorità? Oppure che le autorità già esistenti avessero poteri maggiori?
Più che nuove autorità, servirebbe mettere al centro del dibattito internazionale una forma di cooperazione tra gli Stati, che consenta in misura sempre più larga di far rispettare le regole e perseguire reati, quando sono commessi online come se fossero offline. In oltre parole: la magistratura e le istituzioni democratiche, che tanto potere hanno nella vita quotidiana dei cittadini, dovrebbero utilizzare quello stesso potere anche nella vita online. Se io chiedo la rimozione di una informazione da una testata giornalistica quando ne ricorrono gli estremi, così devo poterlo chiedere anche nella dimensione online. Per farlo, però, occorre investire con decisione sulla cooperazione tra giurisdizioni, nonché su procedure e risorse tecnologiche adeguate.
Proprio il recente provvedimento del Garante in materia di diritto all’oblio hanno dimostrato come sia complesso rimuovere notizie dal web...
Quel provvedimento però fa riferimento al delisting, che garantisce l’oblio perché, pur se la notizia rimane nell’archivio di chi l’ha pubblicata, non viene più indicizzata a partire dal nome dell’interessato. Questo perché si ritiene che identificare con un nome proprio una notizia - anche dopo che è trascorso molto tempo e anche se la notizia, pur veritiera, non ha più interesse pubblico - travalica l’obiettivo dell’informazione e modifica l’identità digitale e dunque personale del soggetto interessato.
Eppure c’è chi definisce la regolazione un «bavaglio all’informazione». Come si può rispondere?
Il punto è se esiste o meno un reato, sia esso commesso online oppure offline. L’espressione libera ha come confine invalicabile la lesione grave dei diritti dei terzi e la vera censura sarebbe, invece, se lasciassimo che fossero gli internet provider a decidere ciò che è lecito o meno pubblicare.
Bisogna riportare il tema su un piano giuridico, quindi?
Io credo che la regolamentazione debba essere esercitata dalle istituzioni democratiche, le uniche legittimate ad operare un bilanciamento tra diritti, perché di questo si tratta. Ecco, la discussione andrebbe riportata su questo terreno.
Eppure il problema dell’odio sui Social e dell’abuso del diritto alla privacy sono difficilmente arginabili con una norma...
Se il web è diventato la discarica delle offese, però, il problema è prima di tutto culturale. E’ di tutta evidenza che, se il dibattito politico si svolge coi toni dell’offesa, dell’insulto e della delegittimazione personale, poi qualunque cittadino si sente autorizzato ad usare gli stessi termini. E’ un problema di civiltà, che riguarda il vivere comune prima che le sanzioni.
Spesso il problema è la pubblicazione di notizie che, prima di essere dimostrate, distruggono la vita delle persone. Pensiamo al caso degli avvisi di garanzia rivelati dai giornali: l’Autorità garante della privacy potrebbe intervenire?
L’utilizzo di notizie tratte dal procedimento penale, riferite a terzi incolpevoli e magari utilizzate per alterare e demolire la reputazione di una persona è, a mio parere, la negazione della responsabilità del giornalista. Inoltre la fuga di notizie come la loro illecita pubblicazione sono disciplinate dal codice di procedura penale. Di questi argomenti il Parlamento si sta occupando ed è auspicabile che trovi un punto di equilibrio perché le leggi servono e vanno aggiornate se si rivelano inadeguate.