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European Commission President Ursula von der Leyen waits for the start of a plenary session during an EU Summit at the Puskas Arena in Budapest, Friday, Nov. 8, 2024. (AP Photo/Denes Erdos)
Dodici giorni di tempo per decidere della sorte della Commissione europea von der Leyen 2, ma anche per sapere se l'Unione è già precipitata in una crisi profondissima che, nella estrema difficoltà attuale, potrebbe rivelarsi persino terminale. «C'è ancora tempo fino al 27 novembre, quando si voterà la Commissione», dichiara ottimista e speranzosa Roberta Metsola, confermata presidente dell'europarlamento. Ha ragione. Il tempo c'è, anche se non moltissimo, e le possibilità di risolvere la situazione salvando in extremis la Commissione pure, anche poche e pericolanti. Ancor più traballanti dopo che ieri i Popolari hanno approvato con l'estrema destra un emendamento che depotenzia drasticamente la legge contro la deforestazione. Per cercare di rattoppare la rottura totale tra i Popolari, gruppo di assoluta maggioranza nel Parlamento europeo, e le tre formazioni alleatesi al Ppe in luglio, la presidente si affiderà al mercanteggiamento: sposterà caselle, offrirà postazioni migliori ai socialisti. Per quanto non si possa mai dire, è improbabile che ceda sulla vicepresidenza Fitto, uno dei due nomi della discordia. Peraltro non basterebbe perché resterebbe in sospeso la seconda casella sotto fuoco 'amico', in questo caso quello dei socialisti contro la socialista Teresa Ribera. Se costretti a cedere su Fitto, anzi, i Popolari si irrigidirebbero ulteriormente sull'improvviso no a Ribera, testa di serie della delegazione socialista in Commissione. Ma il tempo c'è e qualche chance anche. C'è una presidente abile e manovriera e c'è anche la consapevolezza di quale disastro sarebbe mandare la Commissione gambe all'aria e dover ricominciare tutto da capo. L'Europa è già debolissima dal momento che debolissimi sono i due Paesi di testa, il primo, la Germania, senza governo, il secondo, la Francia, con un presidente sconfitto alle elezioni e vicino alla fine del mandato. Un'anatra zoppa. Col crollo della Commissione arriverebbe alla trattativa con gli Usa di Trump, che sarà dura, difficile e soprattutto pericolosa, in ginocchio. Dunque la possibilità che dal cilindro di Ursula salti fuori in questi 12 giorni una soluzione provvidenziale, nonostante tutto, è reale. Il punto di snodo sarà l'intervento di Ribera di fronte al Parlamento spagnolo reclamato dai Popolari che la accusano di corresponsabilità nel disastro di Valencia. Subito dopo si cercherà di chiudere l'accordo sulle due vicepresidenze in bilico, quella della spagnola socialista e quella dell'italiano conservatore. Ieri il presidente del Ppe Weber ha riunito il gruppo e ha annunciato il sì del Consiglio europeo alla vicepresidenza Fitto.
La capogruppo socialista, colta di sorpresa, ha affermato di non saperne niente ma ha aggiunto un «Ne prendo atto», che dovrebbe voler dire semaforo verde anche se nel caso che domina a Bruxelles e a Strasburgo non è detto. Il caso dell'ungherese Varhelyi, che secondo gli alleati del Ppe avrebbe troppe e troppo importanti deleghe cercherà di sbloccarlo la presidente, in una trattativa serrata con l'Ungheria da un lato e con i socialisti dall'altro. La nascita della Commissione servirebbe certamente a qualcosa, però a molto poco. Salvini, che ieri ha confermato il no alla Commissione della Lega e quasi sicuramente tutti i Patrioti faranno lo stesso, dice la pura verità:
«Questa commissione parte debolissima». È così. Nascerà, se non morirà nel parto, già spompata. Sarebbe stato così comunque, essendosi formata la maggioranza in luglio sulla base di una bugia condivisa: quella secondo cui esiste ancora una sia pur parziale convergenza strategica tra i Popolari e i Socialisti. La realtà era diametralmente opposta già allora: i Popolari avevano già virato a destra, guardavano ai Conservatori come alleati presentabili ma in realtà senza poterlo confessare e anche senza esserne affatto contenti, anche ai Patrioti di Orbàn, se non, o non ancora, ai sovranisti della Afd tedesca. I socialisti, costretti a ripiegare sempre più in tutta Europa, cercano invece di organizzare l'ultima strenua resistenza, il che comporta una chiusura totale a quella stessa destra, in tutte le sue varianti, che il Ppe già considera invece interlocutrice e presto interlocutrice privilegiata.
Il voto esplosivo di ieri sull'emendamento che, aggiungendo alla lista dei Paesi in deforestazione anche la categoria di quelli che non necessitano di deforestare ha di fatto impiombato la norma, che infatti Verdi e Socialisti chiedono a questo punto di ritirare, è solo l'ennesima e particolarmente fragorosa prova di quel che era già evidente. Su questa casetta tenuta insieme con lo spago è piombata la bomba Trump, destinata a spazzare via molto presto le posizioni mediane e anche in tentativi di mediazione per spingere invece con grandissima forza verso la polarizzazione. Gli effetti si vedono già ma molto più lo si vedranno quando “the Donald” non sarà più un presidente eletto ma un presidente in carica. Se supererà la crisi in corso sulla nuova Commissione l'Europa avrà poche possibilità di uscire indenne o quasi dal terremoto. Ma se non ce la farà non ne avrà nessuna.
L'eco del ciclone Donald si avverte anche in Italia. Una posizione come quella del Pd, la bocciatura di una vicepresidenza italiana, sarebbe stata inconcepibile anche solo l'anno scorso. Non a caso al comizio di chiusura in Umbria Meloni ha incalzato su questo punto: «Rimango basita», ha detto, «penso che ciascuno si debba assumere la responsabilità delle proprie scelte», rivolgendosi alla segretaria dem. Che invece ha scelto di assecondare quella polarizzazione correndo però un rischio enorme. Se le prossime elezioni, quelle di domenica ma soprattutto quelle del 2025 e se ci saranno i referendum, finissero con sconfitte pesanti, pur con buoni risultati del partito di Elly, tutto nel Pd inizierebbe a vacillare.