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Speriamo si eviti la triste e ipocrita litania dell’onore delle armi. Lo scontro tra Berlusconi e le toghe, una parte cospicua e non marginale della magistratura italiana, è stato duro, senza cedimenti o tregue di sorta. Processi su processi, indagini su indagini hanno segnato per un trentennio circa i rapporti mai idilliaci, sempre malmostosi, tra il capo di una delle più importanti fazioni politiche del Paese che aveva raggiunto soglie ragguardevoli di consenso politico e sociale e il corpo giudiziario.
La magistratura ha sempre guardato con sospetto e con una certa acrimonia non solo o non già alle singole condotte (talvolta poco lineari e opache) del Cavaliere, ma alla sua stessa persona considerata una sorta di emblematica rappresentazione di una disinvolta imprenditoria nazionale, di un certo stile di vita trasgressivo e opulento, di una spigliata interlocuzione con la politica amica, di un uso inappropriato del successo economico. Insomma, si stagliava come il nemico per eccellenza, soprattutto per le fasce più moralistiche e giacobine della cultura giudiziaria del Paese, inclini per vocazione a mettere insieme e sovrapporre morale e giustizia, peccato e reato (come scritto dal professore Sgubbi in un celebre pamphlet di un paio di anni or sono). Ecco la scomparsa di Berlusconi, con il laticlavio di senatore ancora sulle spalle e con processi e indagini tuttora non conclusi, segna l’epilogo inevitabile di una guerra dei Trenta anni da cui, alla fine, la pubblica opinione esce confusa e disorientata, senza ben comprendere chi abbia rivestito i panni della vittima e chi quelli del carnefice, in un gioco di specchi e di ombre in cui ciascuno potrebbe legittimamente proclamarsi vincitore e nessuno vuole accettare le stimmate del vinto.
Un paio di cose, tra le molte, possono comunque dirsi in questo orizzonte ora offuscato dalle spoglie mortali del Cavaliere e dal dolore dei suoi cari. I destini processuali di Berlusconi hanno potentemente eroso la convinzione che nel Paese era ben radicata che le sentenze e i provvedimenti giudiziari fossero capaci di accertare verità in qualche incontrovertibili o almeno non più controverse. La polarizzazione dello scontro ha portato con sé la convinzione, o forse anche la sola epidermica suggestione, che la giustizia non fosse neutrale o imparziale, che l’azione penale non fosse eguale per tutti, che il “Sistema” (di recente conio letterario) selezionasse con una certa dose di accuratezza le proprie vittime o almeno i propri obiettivi.
È stato un colpo micidiale assestato alla credibilità di un’istituzione, quella giudiziaria, che dopo la stagione milanese e palermitana del 1992 e 1993 aveva registrato il massimo di fiducia verso la propria azione e il proprio ruolo di custode delle regole. La battaglia con il signor B., come lo aveva con arguzia definito Franco Cordero (Le strane regole del signor B., Garzanti, 2003), ha inevitabilmente intaccato la credibilità dell’istituzione giudiziaria vuoi per la potenza mediatica che l’ex premier aveva a propria disposizione vuoi per gli eccessi e le disinvolture di qualche suo accusatore accertate nel corso di un lungo, estenuante conflitto con alcuni uffici di procura.
Alla fine di questi tre decenni, grumi consistenti della società civile, frotte di comuni cittadini dubitano della lealtà costituzionale di una parte della magistratura, sono inclini a denunciare complotti, a rivestire i panni del perseguitato in nome di quel pantheon di evocazioni, di suggestioni, di evidenze che Berlusconi lascia quale legato testamentario della sua vita politica e giudiziaria. Un fardello che grava sulle spalle di una parte delle toghe e che ha finito per riflettersi sull’intera istituzione proprio in ragione della durezza di quello scontro e dei bagliori di quel conflitto.
Difficile stabilire, tuttavia, se l’aver ingaggiato questa lotta estenuante non abbia di per sé agevolato il lungo trascinarsi di una gestione della magistratura italiana che non si può rappresentare in altro modo se non con le parole del presidente Mattarella il giorno della sua seconda ascesa al Colle. Un avversario, quello idealmente rappresentato dal Cavaliere a uso dei suoi sostenitori e di una parte non marginale del paese, che intanto ha potuto ritardare la necessaria bonifica interna e il disboscamento di pratiche irregolari, se non illegali, in quanto ha avuto a disposizione un “nemico” cui ascrivere colpe, progetti di rivalsa, vendette, ricerca di impunità. Sgombrato il campo, per ineluttabile ciclo vitale, da questo argine e da questa giustificazione sembra più complesso respingere o anche solo contenere spinte riformatrici, se non profonde innovazioni costituzionali, poiché nessun altro meglio del Cavaliere ha impersonato il ruolo necessario del “nemico” indispensabile per serrare le fila delle corporazione e per mettere a tacere ogni pretesa di cambiamento. Con una differenza che, mentre in questo lungo arco temporale la battaglia si è sempre incentrata sui processi per neutralizzare questo o quel reato, per ricusare questa o quella prospettiva di condanna (le cosiddette leggi ad personam), da oggi in avanti lo scontro si andrà a polarizzare sulla collocazione costituzionale della magistratura, sulla articolazione di essa in un potere inquirente e in uno giudicante, sulla regolazione dell’autogoverno, sul potere disciplinare.
L’arrocco sembra più difficile e più arduo smorzare progetti di riforma in nome di un interesse personale, anche solo riflesso o indiretto, dell’ingombrante inquilino di Arcore. Una stagione si chiude con il feretro dell’anziano e malato leader e una nuova epoca si profila all’orizzonte con una magistratura che dovrà con difficoltà riannodare il filo di un dialogo interrotto trenta anni or sono con i propri guasti e con i meriti della propria inesauribile e insostituibile ricchezza.