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MARIO DRAGHI
Draghi, Draghi, Draghi. Poco ma sicuro all'ex governatore di Bankitalia, ex presidente della Bce, ex presidente del Consiglio nelle ultime settimane le orecchie hanno ricominciato a fischiare da mattina a sera. Non c'è toto presidente della Commissione europea che non lo piazzi tra i più papabili. Chiacchiere o ipotesi reale? La domanda, quando si tratta di Draghi, è sempre inevitabile.
Il suo nome ha un peso specifico tale da essere evocato quasi giocoforza ogni volta che una situazione di difficoltà sembra richiedere un intervento di polso ma esterno al gioco politico più stretto: un tecnico ma di quelli capaci di fare politica quanto e più dei professionisti. È precisamente il caso che si dà in Europa alla vigilia delle elezioni forse più importanti nella storia dell’Unione. E anzi quel malaugurato caso si dà doppiamente perché i problemi sono due, uno con scadenza a breve riguarda la prossima presidenza della Commissione, l'altro di ben altra portata è strategico e si può riassumere così: nella sfida con le economie della Cina e degli Usa la Ue si configura oggi come il classico vaso di coccio. Destinata a essere schiacciata senza uno scatto di reni e di quelli robusti.
Proprio la competitività europea è al centro dell'interesse e del lavoro di Draghi oggi. La sua direzione di marcia è nota e l'ex presidente della Bce la ha confermata due giorni fa, nel discorso pronunciato a Berlino in occasione del conferimento del premio dell'American Academy in Berlin: «Il numero e l’importanza dei cambiamenti che l’Europa deve intraprendere per preservare la sua prosperità e la sua indipendenza sono senza precedenti nella storia dell’Unione».
Cambiamenti che, anche alla luce delle mutate condizioni geopolitiche, devono mirare a un obiettivo preciso: «Una politica economica estera che affronti le vulnerabilità con un’unica strategia, sia rimuovendo internamente le barriere che limitano il nostro potenziale sia garantendo esternamente le risorse a cui nessun Paese europeo può accedere da solo». È una visione opposta a quella dei rigoristi capitanati dal ministro delle Finanze tedesco Lindner. Presentando il Def, due giorni fa, il ministro italiano ha fatto scivolare tra le righe un chiarimento importante. Ha infatti sottolineato che oggi nell'Unione spira un forte vento contrario agli investimenti comuni come il Pnrr.
Ancora una volta Draghi incarna sullo scacchiere europeo la spinta forte verso unità e integrazione e ancora una volta la sfida è tra quella posizione e la resistenza dei rigoristi che tirano in senso diametralmente opposto. Evocare la figura di Mario Draghi come presidente della Commissione rinvia direttamente a uno scontro strategico che va molto oltre quella specifica nomina.
Ma anche su quel punto in particolare nella Ue si confrontano due posizioni: quella dei capi di governo che vogliono un presidente della Commissione più debole e quella opposta, incarnata in questo momento soprattutto da Macron, che ai margini dell'ultimo Consiglio ha quasi esplicitamente alluso alla possibile presidenza Draghi. Ma al presidente francese potrebbe aggiungersi la premier italiana.
Giorgia Meloni ha puntato sulla riconferma dell'alleata Ursula von der Leyen e non la abbandonerà. Ma la corsa di Ursula, osteggiata anche da buona parte del suo Ppe, è in salita. Se non ce la facesse, ipotesi per nulla surreale, sarebbe in campo la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola ma qualche chances la avrebbe anche il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani.
Sono entrambi esponenti del Ppe, che sarà confermato come il gruppo più forte a Strasburgo e con 13 capi di governo su 27 provenienti dalle proprie file non intende rinunciare alla guida della Commissione. Entrambi i candidati risponderebbero al requisito richiesto dai capi di governo che non vogliono cedere quote di potere a Bruxelles. Sarebbero entrambi candidati autorevoli ma deboli. Draghi incarnerebbe la scelta opposta, quella del balzo in avanti verso l'integrazione.
Per la premier italiana l'interesse sarebbe però senza dubbio più particolare, o almeno anche più particolare: la richiesta italiana di prorogare sino al 2027 la scadenza per i progetti del Pnrr, la trattativa sul Piano di rientro che dovrà essere presentato entro il 20 settembre e poi discusso con la nuova Commissione, sono nodi di vitali importanza per evitare che l'Italia finisca soffocata per anni da un'austerità troppo rigida. Draghi, non solo perché italiano ma anche per la sua visione del futuro dell'Unione, sarebbe probabilmente per il governo italiano un sostegno prezioso.
Ma anche qualora l'indisponibilità del Ppe a cedere la guida della Commissione si rivelasse proibitiva, non è escluso che si possa aprire un'altra strada, forse persino più significativa. In novembre scadrà il mandato di Charles Michel come presidente del Consiglio europeo. Mario Draghi, in quella postazione, potrebbe incidere quanto nelle vesti di presidente della Commissione e forse anche di più.