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Le dimissioni del ministro della Pubblica Istruzione Lorenzo Fioramonti, hanno riportato in evidenza la crisi che da decenni attanaglia la scuola italiana. Se il suo gesto sortirà qualche effetto ( ne dubitiamo fortemente) non sarà stato vano. Ma se, come tutto fa credere, nessuno nell’attuale compagine governativa, e ancor più generalmente nella classe politica italiana, ha davvero a cuore i destini della formazione delle giovani generazioni, c’è davvero da disperare per l’istituzione che dovrebbe essere alla base della costruzione della società futura.
A dire la verità, Fioramonti si è svegliato un po’ tardi nel reclamare tre miliardi di euro per rimettere in sesto le strutture scolastiche. In passato se n’era uscito con proposte piuttosto eccentriche, se non proprio ridicole, come la tassazione delle merendine per convogliare danaro nel suo dicastero, distinguendosi, peraltro, in una battaglia piuttosto risibile per l’abolizione del crocifisso nelle scuole o per il diritto di giustificazione degli assenti alle lezioni se partecipanti alle manifestazioni per il clima. Già avere un ministro così la dice lunga sulla considerazione che si ha della scuola. Se poi ci aggiungiamo che ha dovuto aspettare la manovra economica per accorgersi che non c’erano soldi disponibili per le esigenze della pubblica istruzione, vuol dire che vive su un altro pianeta.
Comunque, ne siamo certi, il deperimento della scuola, dell’insegnamento, dell’apprendimento, della formazione delle giovani generazioni continueranno, con o senza Fioramonti. Il problema è endemico e strutturale. E non può che essere imputato allo stravolgimento della stessa concezione del sapere, da almeno mezzo secolo.
Celebrando di recente i “fasti” del Sessantotto qualcuno, pur avveduto, ha dimenticato di segnalare che il “nuovo corso” scolastico si è imposto attraverso la veicolazione dell’ideologia egualitaria che nel mentre si applicava alla distruzione della famiglia - altro istituto- cardine cui non si ci ferisce la benché minima attenzione - coerentemente proiettava lo stesso progetto nell’annullamento della scuola dal cui disfacimento, si diceva, sarebbe nata una società nuova connessa ad una umanità libera fondata sul non meglio precisato “amore” e non più sul “reazionario” matrimonio.
Dalle molte riforme scolastiche susseguitesi nell’ultimo cinquantennio almeno in Italia tutte volte a peggiorare l’istruzione - è venuta fuori una forma di insegnamento e di apprendimento senza passato, privo di memoria, fondato sulla nullificazione del pensiero critico e volto ad accrescere un nozionismo “basico” per disavventura degli studenti, propedeutico al dispiegamento di fantasiose facoltà universitarie che non offrono assolutamente nulla nella prospettiva di esercitare una professione. Naturalmente la cultura classica è stata sacrificata alla glorificazione di una pseudoscientificità che è uno dei motivi dell’abbandono degli istituti formativi italiani per quelli stranieri da parte di molti studenti o neo- laureati. La scrittrice britannica Dorothy Leigh Sayers ( 1893- 1957), piuttosto sconosciuta in Italia, autrice della migliore traduzione in inglese della Divina Commedia, divenne celebre per una conferenza tenuta nel 1947 a Oxford: The Lost Tools of Learning.
Gli “strumenti perduti”, di cui parla il titolo, sono quelli dell’educazione classica. E proponeva - da studiosa di medievistica - un’organizzazione degli studi, dalla prima infanzia fino all’inizio dell’età adulta, fondata sull’antica divisione tra le arti del trivio ( grammatica, logica, retorica).
Potrebbe essere ritenuta bizzarra la proposta, ma non tanto se si considera che il primo fallimento scolastico che di solito si registra nei discenti è nella difficoltà di fornire gli strumenti mentali necessari all’apprendimento.
E, sia pur semplificando, la riforma scolastica di Giovanni Gentile si fondava proprio sull’intento di sanare questo iato unitamente alla mancanza di “pensiero critico” nelle giovani generazioni. Nacque così la scuola per tutti, abbienti e meno abbienti, ritenuti secondo il valore dimostrato meritevoli di accedere a scuole che il classismo dell’epoca precludeva a coloro che appartenevano ad un’Italia ritenuta ingiustamente “minore”. Oggi di quella riforma, copiata ed adattata a tutte le latitudini, non resta sostanzialmente più nulla. La scuola è vuota, come le culle. E l’immiserimento morale e culturale del nostro Paese - ma anche di buona parte dell’Occidente - lo si deve al cedimento dell’istituzione formativa più importante da millenni a questa parte.
Ernesto Galli della Loggia ha dedicato di recente un saggio tagliente e crudo al disfacimento scolastico: L’aula vuota ( Marsilio), un testo che docenti, politici, intellettuali dovrebbero religiosamente meditare, magari tremanti un po’ di fronte alle verità che rivela. Già tempo fa Galli della Loggia, dalle colonne del Corriere della Sera auspicò un leggero innalzamento della cattedra su un predellino, come una volta, tanto per ribadire la necessaria ed opportuna distanza tra docenti e discenti, ricordando, anche simbolicamente, il principio di autorità al quale conformarsi nell’educazione scolastica. Nel suo libro, lo storico animato da vena polemica, asserisce: «La cultura alla fine significa semplicemente la possibilità per ognuno di noi di uscire dalla propria particolarità e di mettersi in relazione con il mondo passato e presente, con tutti i suoi pensieri, i suoi protagonisti e i suoi fatti, raggiungendo così una pienezza di vita altrimenti impossibile». Chi può dire che oggi la scuola, così come è strutturata, con la sua pedagogia “matrigna”, con i suoi testi davvero “vuoti” introduca alla relazione con il passato e il presente? Il passato, invero, è espunto; del presente c’è solo cronaca di moneta grossa; il futuro nemmeno lo si riesce ad immaginare. E così nelle menti dei giovani non trovano posto letteratura e poesia, storia e geografica, filosofia e musica, arte e scienze, ma soltanto le loro parodie.
«E’ impossibile - osserva Galli della Loggia - immaginare l’istruzione senza collegarla ad una trasmissione di valori, di principi e di conoscenze, che non abbiano in qualche modo lo sguardo rivolto all’indietro: che cos’è questa lingua che parlo? Che cosa c’è stato prima di me? Che cos’è questo Paese e questo Stato di cui sono cittadino? Che rapporto ho con il mondo?». Insomma, senza conoscere la continuità che ci ha fatto ciò che siamo può accadere che «i nuovi venuti, la generazione più giovane, non sapendo nulla del mondo in cui arrivano lo mettano a soqquadro, lo lascino andare in rovina, e per pura e semplice incoscienza lo distruggano» . La “riformite” ha distrutto prima la famiglia e poi la scuola. Tanto per la prima quanto per la seconda, l’obiettivo dei progressisti, in buona sostanza raggiunto, è stato quello di costruire una comunità di liberi ed uguali, privi del riferimento dell’autorità, autorizzati ad autoeducarsi. Vale a dire ad agire arbitrariamente seppellendo il diritto naturale ed il buon senso.
Le rivoluzioni prima o poi finiscono per divorarsi. La preoccupazione è che hanno divorato tutto ciò che meritava di esistere. Non sarà facile, semmai dovesse accadere, reinventare un’umanità dissolta.