Meglio non illudersi e del resto nessuno si illude: la guerra di Gaza e forse la possibile conseguente crisi mediorientale non tarderanno a essere brandite da tutti i partiti italiani, ciascuno a modo suo, per usi che hanno poco a che vedere con il Medio Oriente e molto con la propaganda interna. Almeno per un leader di partito, però, la posta in gioco è personale. Antonio Tajani, leader azzurro ancora non solidissimo e vicepremier, è stato sin qui ministro degli Esteri più di nome che di fatto, essendo quel ruolo occupato in pianta stabile dalla premier. Ora ha l'occasione di riprendersi il titolo, anche perché la crisi di Gaza, a differenza di quella ucraina, richiede proprio le doti in cui eccelle, diplomazia e moderazione al massimo livello.

Il ministro sa perfettamente che in questa tragedia l'Europa non può avere alcun ruolo ma sa anche che l'Italia, nei rapporti col mondo arabo e in particolare con le organizzazioni palestinesi laiche, insomma con l'Anp, ha ereditato dalla prima Repubblica un rapporto privilegiato e speciale che potrebbe nel prossimo futuro dimostrarsi spendibile. In ogni caso il suo intervento in Parlamento è stato apprezzato davvero da tutti e ha avuto un peso essenziale nell'avvicinare le posizioni pur senza raggiungere l'obiettivo dichiarato della mozione comune.

Salvini, come al solito, si colloca all'estremità opposta dello spettro politico, pur condividendo con il titolare della Farnesina il vicepremierato. Come al solito la sua tattica passa per il mostrarsi il più ruggente di tutti, il capo falco. In realtà a impedire la mozione unitaria è stato proprio lui, insistendo sul passaggio della mozione di maggioranza che formalmente chiedeva di eliminare ogni possibile sostegno finanziario per Hamas, ma era scritto a maglie tanto larghe da spalancare i cancelli per la soppressione degli aiuti ai palestinesi in generale. Il capo della Lega ha puntato i piedi, si è opposto a ogni rimodulazioni del passaggio, ha così impedito una mozione unitaria del tutto a portata di mano. Nei prossimi giorni e nelle prossime settimane proseguirà su questa strada, facendo proprie le posizioni della destra estrema israeliana e cercando di far passare chiunque non sia su quella posizione come alleato di Hamas o come flaccido nel combatterla.

Per la premier, e di conseguenza per tutta FdI, la crisi è l'ennesimo tassello nella ricerca di una piena legittimazione che nonostante la vittoria elettorale e il ruolo in Europa ancora in parte le sfugge. Si tratta di lavare una volta per tutte la macchia, sbiadita ma non ancora scomparsa, dell'antisemitismo fascista. Nella destra anche missina, non solo extraparlamentare, era in realtà forte una componente molto filopalestinese il cui silenzio assoluto conferma quanto totale e salda sia la presa di Giorgia Meloni sul suo partito. L'opposizione non è riuscita a partorire una mozione comune. I centristi riuniti sono andati per conto proprio e si può essere certi che soprattutto Renzi approfitterà di ogni passaggio che non suoni come appoggio strenuo a Israele per accusare il Pd di farsi guidare dal M5S. In realtà il partito più anti- israeliano che ci sia in Italia è proprio quello di Conte. Di Battista, certo, è oggi un battitore libero ma le sue posizioni corrispondono al sentire comune dei 5S pre-Conte e quegli umori sono ancora egemoni nel Movimento, pur se temperati dalla diplomazia dell'avvocato. Su questo terreno, poi, trovano facilmente una sponda nell'alleanza rosso- verde di Avs.

La tensione latente con il Pd è stata tenuta a freno al momento di scrivere la mozione comune Pd- M5S- Avs ma con fatica. Se la situazione si risolvesse ora, quella tensione finirebbe di nuovo sotto il tappeto ma è un'ipotesi fuori dalla realtà. Al contrario la guerra di Gaza radicalizzerà le posizioni e all'interno del Pd verrà adoperata dalla minoranza, come era già evidente nella differenza di toni tra la segretaria e l'ex sfidante Bonaccini. La segretaria si troverà così stretta tra un Conte deciso a fare della questione palestinese una leva per conquistare l'elettorato “a metà strada” tra i suoi 5S e il Pd e una Schlein pressata dalla minoranza interna del suo partito. In fondo, col senno di poi, proprio l'abbandono delle posizioni molto filoarabe di D'Alema operato da Renzi fu uno dei punti chiave della sua mai del tutto rientrata “rottamazione”.