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Rampelli, deputato di Fratelli d'Italia
Per l'ennesima volta nel giro di pochissimo tempo si conferma che il vero tallone d'Achille di Giorgia Meloni e l'elemento per lei di maggior rischio è rappresentato dalla superficialità e dall'inadeguatezza della sua squadra, nel partito e al governo. Stavolta però il colpo è più doloroso perché colpisce direttamente la sua cerchia più ristretta, i “meloniani”, e perché offre un'arma pesante agli “antimeloniani” di FdI, primo fra tutti l'ex nume tutelare di Giorgia, Fabio Rampelli, che martedì, nel cuore della bagarre di Montecitorio, se l'è goduta a sottolineare che l'accusa di «analfabetismo istituzionale» rivolta al compagno di partito Giovanni Donzelli non suonava alle sue orecchie come ingiuria. Ecco perché, in veste di vicepresidente della Camera che in quel momento presiedeva l'aula, ha lasciato correre. In sostanza Giorgia Meloni esce indebolita sia come premier che come leader di FdI.
Parlare di autogol è dir poco. Il governo e la maggioranza hanno trasformato lo sciopero della fame di Alfredo Cospito, in un guaio di prima grandezza facendo praticamente tutto da soli. Non paghi due degli uomini più vicini alla premier, il coordinatore e vicepresidente del Copasir Donzelli e il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, si sono passati informazioni non coperte da segreto istruttorio ma che certamente richiedevano, anche ufficialmente e formalmente, discrezione al solo scopo di mettere in difficoltà un partito avversario.
Il risultato è devastante, al di là di come la procura valuterà il fatto, se penalmente rilevante o meno. Non sarà facile, anzi sarà impossibile, per il ministro Nordio criticare ancora la diffusione indebita delle intercettazioni senza sentirsi rinfacciare il comportamento poco qualificabile del suo sottosegretario e di Donzelli. La maggioranza, d'ora in poi, non potrà accusare l'opposizione di atteggiamenti strumentali senza trovarsi inchiodata alla strumentalizzazione tentata ieri da uno dei Fratelli più vicini alla premier. L'immagine da statista seria che la presidente si sforza di proporre dal giorno del suo ingresso a palazzo Chigi esce fortemente danneggiata dagli schiamazzi tutt'altro che seri e dal comportamento ben poco istituzionale di due dirigenti a lei vicinissimi.
Nel suo intervento in Parlamento di ieri il ministro Nordio è stato prudentissimo, trincerandosi dietro il fascicolo aperto sul sottosegretario Delmastro dalla procura di Roma per la fuga di notizie. Ma il guardasigilli è stato ben attento a non pronunciare una sola sillaba che suonasse come una difesa del suo vice. Se si tiene conto del ruolo sin qui esercitato dal sottosegretario, fedelissimo della premier incaricato di “commissariare” il ministro correggendolo, indirizzandolo e se del caso smentendolo ci vuole poco a immaginare che d'ora in poi i rapporti di forza in via Arenula saranno molto diversi.
Nel partito, è molto improbabile che la ricaduta del fattaccio si abbatta subito su una leader che è tuttora fortissima. Ma si sa come vanno queste cose in politica: quando non si può prendere di mira il bersaglio grosso lo si lavora ai fianchi colpendo i suoi collaboratori, quando è possibile e da martedì pomeriggio lo è. Rampelli considerava già nemico giurato Donzelli, nominato dalla premier commissario straordinario del Lazio al posto del rampelliano Massimo Milani. Qualsiasi rivincita potrà prendersi approfittando del colpo che il meloniano si è inferto da solo gli sembrerà ancora poco. Salvo nuovi elementi né Donzelli né Delmastro si dimetteranno ma nel giro di 24 ore sono passati da quasi onnipotenti ad anatre zoppe e il loro indebolimento si riflette direttamente sulla solidità del capo, della premier e leader. Meloni resterà intoccabile sino a quando i consensi continueranno a sostenerla, ma nel momento stesso in cui dovessero scendere si troverà invece circondata sia nella maggioranza che nel suo partito. Il problema, per lei, è che di strafalcione in strafalcione l'eventualità di un calo di consensi nel giro di qualche mese non è affatto esclusa.