L’arresto di Mario Chiesa, le monetine del Raphael, la spinta dell’opinione pubblica. E poi le date: il 17 febbraio 1992, il 30 aprile 1993 e, infine, il 29 ottobre dello stesso anno. Quando si parla di immunità parlamentare, che Forza Italia vorrebbe reintrodurre come proposto dal capogruppo azzurro in commissione Giustizia alla Camera, Tommaso Calderone, non si può prescindere da quanto accadde più di trent’anni fa e che portò, appunto il 29 ottobre 1993, all’approvazione della riforma costituzionale che escluse dall’immunità parlamentare il caso in cui un deputato dovesse essere perseguito in virtù di una sentenza di condanna passata in giudicato e al tempo stesso eliminò la necessità dell'autorizzazione a procedere per sottoporlo a procedimento penale. A quella riforma si arrivò in piena Tangentopoli, sotto una forte spinta dell’opinione pubblica e con i partiti, Pds in primis visto che era stato l’unico non toccato se non di striscio dalle inchieste del pool di Mani Pulite, a fare da traino.

L’art. 68 nel testo originario disciplinava le immunità secondo la ben nota suddivisione tra insindacabilità e inviolabilità: la prima tutela i parlamentari quanto «alle opinioni espresse e ai voti dati nell’esercizio delle loro funzioni» e dunque impedisce il sorgere del reato; l’inviolabilità ha invece natura processuale, risolvendosi in un impedimento a specifiche attività dell’autorità giudiziaria, che può essere rimosso solo mediante un’autorizzazione della camera di appartenenza del parlamentare.

Ma nel 1993 l’autorizzazione a procedere veniva sempre più percepita dall’opinione pubblica come un privilegio di “casta”, e questo portò alla celebre legge costituzionale n. 3 di quello stesso anno.

Eppure, anche all’interno dello stesso Pds, che esprimeva la presidenza della Camera con il futuro presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, non mancarono le voci che esprimevano una certa contrarietà rispetto alla modifica dell’articolo 68 della Costituzione. Figure come Claudio Petruccioli o Gerardo Chiaromonte, non mancheranno di esporre in forma più o meno privata i propri dubbi circa una riforma che cavalcava l’ondata giustizialista presente in Italia (le monetine del Raphael precedono di pochi mesi l’approvazione della riforma) ma che fece perdere del tutto lo spirito garantista che aveva da sempre contraddistinto il PCI. Il quale tendeva a difendere i principi dello Stato di diritto e le garanzie costituzionali, compresa l’immunità parlamentare, sottolineando l’importanza di proteggere i diritti individuali contro possibili abusi del potere giudiziario, specialmente in un contesto politico complesso come quello italiano.

Di fronte all’ondata di indignazione pubblica e alla crescente sfiducia verso la politica, anche i più garantisti dovettero confrontarsi con l’esigenza di maggiore trasparenza e responsabilità. E questo portò molti esponenti della sinistra a riconsiderare la propria posizione sull'immunità parlamentare, sostenendo la necessità di riforme per rispondere alla crisi politica e morale del momento.

Già il 30 aprile del ’93 infatti il Pds si era reso protagonista di uno dei più sorprendenti colpi di scena dell’Italia repubblicana, cioè l’uscita da un governo che aveva giurato solo poche ore prima.

A raccontarlo è stato più volte lo stesso Petruccioli, che ha evidenziato la spaccatura che c’era nel partito per entrare nel governo Ciampi, e come lui e Occhetto, a differenza di molti altri, premevano per il sì. Con il conseguente via libera di Occhetto consapevole tuttavia di avere buona parte del partito contro, e la relativa uscita dall’esecutivo poche ore dopo quando alla Camera anziché esserci il dibattito sulla fiducia al governo e il relativo voto, si discusse sull’autorizzazione a procedere per Craxi. Con tanto di monetine lanciate contro l’allora segretario del Psi solo poche ore dopo.

Da lì la valanga giustizialista accelerò, fino alla riforma costituzionale che modificò l’immunità. «La revisione costituzionale dell’art. 68 si colloca all’interno di un arco temporale, l’XI legislatura, tra il 1992 e il 1994, nel quale si realizza, per ragioni interne ed internazionali, un mutamento del regime politico cosi? profondo da far parlare di Seconda Repubblica - ha spiegato il giurista Vincenzo Lippolis - Non si tratta di una mera coincidenza cronologica sia perché a spingere alla revisione dell’art. 68 furono le stesse cause di malessere dell’opinione pubblica che contribuirono al più generale rivolgimento del sistema politico, sia perché di tale mutamento di regime il nuovo art. 68 ha costituito un tassello importante, avendo modificato nel profondo il rapporto tra il parlamento (e la classe politica), da un lato, e la magistratura, dall’altro, alterando, quindi, il complessivo bilanciamento tra poteri delineato dai costituenti».

È dunque quella riforma uno dei tasselli fondamentali che diede il via alla “guerra dei trent’anni” tra politica e magistratura, la quale dalla nascita del governo Meloni ha visto un riacutizzarsi dello scontro, anche e soprattutto per la riforma costituzionale della separazione delle carriere fortemente voluta dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, approvata dalla Camera e che ora sta seguendo il proprio iter al Senato. Ma anche per altre questioni di stretta attualità, dallo scontro sul protocollo Albania per i migranti al caso Almasri. Fino alla proposta di Forza Italia per il ripristino dell’immunità.