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Fuori altri due, dunque: Nunzio Angiola, tarantino, e Gianluca Rospi, di Matera.
Entrambi deputati, il che per Conte è un sollievo perché a Montecitorio i numeri sono blindati, entrambi critici con la manovra e soprattutto con la scelta di dribblare il dibattito alla Camera imponendo con il voto di fiducia il provvedimento già chiuso al Senato e non modificabile.
Non sono i primi, non saranno gli ultimi.
Proprio come Gianluigi Paragone non è il primo espulso e non sarà l'ultimo, anche se nessuno prima di lui aveva scelto di rendere la misura tanto sofferta e tanto costosa in termini di consensi per il Movimento. Ha già avanzato ricorso e minaccia: “Dovranno portarmi via con la forza”. Il suo spinoso caso, intanto, ha già provocato una lacerazione clamorosa: quella tra Di Maio, favorevole all'espulsione immediata, senza neppure riunire i probiviri, e Di Battista, che si è invece schierato dalla parte del giornalista. Ma la grana Paragone non è destinata a finire presto e non solo per la decisione del senatore di non accettare il verdetto del capo. Nella sua autodifesa, nelle settimane scorse, il senatore ribelle aveva puntato il dito contro i tanti che, nel governo e nei gruppi parlamentari, non pagano la loro quota mensile al Movimento, cioè alla piattaforma Rousseau. Al grido di “No all'anarchia” Di Maio è deciso a mettere gli insolventi alla porta, col rischio, se la battaglia degli spicci non si chiuderà presto, di ritrovarsi con i gruppi falcidiati. In questo quadro di rovine fumanti la parola che ormai tutti accostano alla sigla M5S è “scissione”. Inevitabile, imminente, temuta e attesa. Solo che per il Movimento la scissione è un'opzione quasi impossibile, per la disperazione di Giuseppe Conte, Nicola Zingaretti e Sergio Mattarella.
Una scissione, in fondo, è un processo traumatico ma a modo suo ordinato e a volte necessario per mettere ordine. Certo, i numeri sarebbero a rischio ma c'è la ragionevole aspettativa che, nel momento del bisogno, i ribelli forzisti antisalviniani accorrano per supplire alle defezioni e tappare la falla prima che la nave giallorosa affondi. Però, perché ci sia una scissione, devono confrontarsi due opzioni opposte e ben delineate: progetti politici diversi che si scoprono inconciliabili, oppure devono fronteggiarsi due gruppi di potere riconoscibili, e spesso entrambe le cose insieme. Non è il caso del M5S, che ricorda piuttosto il Libano della guerra civile di tutti contro tutti. La divisione tra orizzonti politici troppo diversi per consentire mediazioni c'è, ed è stata plasticamente messa in scena tra Natale e Capodanno dai casi di Lorenzo Fioramonti e Gianluigi Paragone.
Il primo ha già portato alle estreme conseguenze la posizione di quei 5S che guardano ormai apertamente al centrosinistra e a un'alleanza strategica con il Pd. Il secondo è modello ideale di quei pentastellati che invece rimpiangono l'asse con la Lega. Ma queste due “ali estreme” non esauriscono affatto la mappa dei gruppi parlamentari a cinque stelle e ancor meno quella della base militante o dell'elettorato. In mezzo c'è la componente più robusta, quella che nella prima Repubblica si sarebbe chiamata “autonomista”, incarnata da Di Maio ma anche da Di Battista. Nei mesi scorsi i due si sono mossi all'unisono, proprio in nome di un “autonomismo” del Movimento, “né di destra né di sinistra”, che probabilmente non è oggi più possibile o praticabile. Oggi però anche quel rinnovato asse si è spezzato. Come si è spezzato anche il timone di comando, con un conflitto fra Grillo e Casaleggio jr. sempre meno occulto e che spazia dall'indirizzo politico ai soldi, onnipresenti nelle grane a cinque stelle.
L'intesa tra Di Maio e Conte, invece, si era logorata già da tempo, ma oggi è ai minimi storici.
Poi ci sono gli asti personali tra dirigenti, le incompatibilità tra aree interne piccole o piccolissime, la diffidenza reciproca. In questa situazione una scissione pulita sarebbe il male minore. Ma quel danno limitato non è disponibile. Il panorama, al contrario, è precisamente quello che paventava il capo dello Stato in agosto, quando giustificava con i collaboratori più stretti i suoi dubbi nei confronti della nuova e costituenda maggioranza proprio con il timore di ritrovarsi, dopo la manovra, con un progressivo sfaldamento del Movimento che lo avrebbe reso ingovernabile, diviso in una pletora di anime al punto di non saper più neppure con chi confrontarsi. Sui tempi il vaticinio si è dimostrato troppo ottimista: la disgregazione non ha atteso l'approvazione della legge di bilancio per avviarsi. Su tutto il resto, invece, quel timore si sta dimostrando lucida profezia.