«Pensa se era un nemico...». La frase ha fatto capolino, tra gli addetti ai lavori, a Pontida domenica pomeriggio, al termine del comizio di Matteo Salvini. Il riferimento era al messaggio di pronte scuse inviato dal leader leghista al segretario azzurro («Tajani è un alleato e un amico»), dopo la vicenda dei cori e degli striscioni ingiuriosi lanciati dai giovani leghisti sabato pomeriggio dal pratone all'indirizzo del ministro degli Esteri. Alla pubblica ammenda di Salvini, poi, ha fatto seguito quella dell'artefice dello slogan “Tajani scafista” e dei cori, vale a dire Alessandro Verri, coordinatore dell'organizzazione giovanile del Carroccio, autodefinendosi «un po' scemo».

Ma al di là delle cadute di stile e della goliardia, dal palco della spianata della località lombarda, Salvini ha assestato a Tajani una combinazione di “vaffa” politici abbastanza pesanti. In particolare, le parole sulla cittadinanza sono state le più dirette e lasciano aperta un'ipotesi concreta di spaccatura interna alla maggioranza, qualora il tema dovesse veramente arrivare in Parlamento, come asseriscono gli esponenti di Forza Italia. I primi due anni di governo di centrodestra, infatti, insegnano che quando si parla di politica estera, le posizioni leghiste che obiettivamente ammiccano a Putin rientrano ogniqualvolta un decreto per gli aiuti a Kiev passi per le camere.

Anche il “vaffa” di Salvini a Tajani sulle politiche di Bruxelles, in mano a un Ppe ritenuto connivente della sinistra «ecoterrorista, immigrazionista» e fautrice di politiche contrarie ai valori occidentali, è stato già ampiamente assorbito a ricalca un canovaccio già visto, con il doppio forno di entrambi rispetto al governo continentale, dove la Lega marcia accanto a Orban e Fi ha dato la fiducia a Ursula von der Leyen, e quello nazionale, col collaudato schema del centrodestra post- berlusconiano. E anche il terzo “vaffa”, quello sulle tasse da far pagare ai banchieri, verosimilmente animerà il percorso della Legge di Bilancio, ma come negli anni precedenti preluderà ad una soluzione condivisa, all'ombra della mannaia dell'inevitabile doppio voto di fiducia.

Sulla cittadinanza, però, le cose stanno diversamente, perché risulta evidente che una polemica su un tema così sentito dal Carroccio non esiste alcuno spazio di mediazione tra Salvini e Tajani. A maggior ragione, se si considera che il ministro dei Trasporti ritiene questo un terreno fertile per guadagnare consenso a destra, alzando i toni fino a frequenze che la premier Giorgia Meloni non può più raggiungere a causa del suo ruolo. Dopo avergli chiesto scusa sul piano umano, su quello dialettico il segretario leghista ha demolito quello azzurro, aiutato in questo dal generale Vannacci, per il quale la cittadinanza «non si regala». Poi, Salvini ha rincarato la dose, asserendo che più che una legge che preveda nuove forme di concessione, ne servirebbe una che revochi la cittadinanza ai naturalizzati che delinquono nel nostro paese. La palla ora è nella metà campo di Forza Italia, che al primo appuntamento parlamentare sul tema (un emendamento presentato da Azione che riproponeva grosso modo le norme annunciate da Tajani), ha votato assieme agli alleati, rimandando la questione a una proposta di legge organica. Che è arrivata questo weekend, proprio negli istanti in cui da Pontida si levava il dissing dei giovani leghisti contro Tajani.

Una proposta ribattezzata “Ius Italiae”, che a ogni buon conto non presenta nulla di trascendentale rispetto alla normativa attuale, prevedendo la concessione della cittadinanza (su richiesta dei genitori) per i ragazzi stranieri nati o arrivati in Italia entro il compimento del quinto anno d'età e che nel nostro paese abbiano completato proficuamente l'intero percorso decennale della scuola dell'obbligo, risiedendovi ininterrottamente. Tanto che i vescovi, i quali avevano incoraggiato Tajani ad andare avanti sullo Ius scholae, l'hanno definita «un passo indietro».

La questione però – non è un segreto – è squisitamente politica, e mentre la presidente del Consiglio ha affermato che a suo avviso va bene l'attuale normativa ma si è ripromessa di valutare le proposte azzurre nella speranza che queste non arrivino mai in aula, i leghisti sperano proprio il contrario per portare a compimento la propria campagna identitaria. Dal canto loro, i forzisti giurano che non si tratta di una cosa effimera: il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto conferma che non si tratta di una «proposta di facciata». Si vedrà, intanto il “vaffa” più indigesto rischia di essere quello di Fi sull'Autonomia: la preoccupazione a via Bellerio è palpabile, e lo testimoniano le parole dei governatori Zaia e Fedriga e del padre della legge Roberto Calderoli.

La “melina” della componente meridionale azzurra, che invoca le definizione dei Lep, sta spazientendo gli esponenti del Carroccio, i quali sanno anche che tra le armi dei forzisti che osteggiano la riforma ci potrebbe essere quella definitiva dell'avallo silente del referendum chiesto dall'opposizione, qualora questo venga ammesso dalla Consulta. In questo modo potrebbero affossare la legge, senza però lasciare le proprie impronti digitali sulla scena del delitto.