«Rapporti splendidi». È verosimile che, dopo le polemiche roventi degli ultimi giorni, per il segretario di Forza Italia Antonio Tajani questa frase, pronunciata da Matteo Salvini ieri mattina, suoni più come l'ennesima beffarda puntura di spillo che come un tentativo di gettare acqua sul fuoco. Riesce difficile pensare, anche ai più ingenui tra gli osservatori, che questo basti al ministro degli Esteri per considerare avviata una tregua nella guerra di nervi che sta coinvolgendo pressoché dall'inizio della legislatura FI e la Lega, con periodi di relativa calma che si alternano ad altri di scontro incandescente, come quello attuale.

D'altra parte, la tattica salviniana è cosa ben nota sia all'entourage di Tajani che a quello della premier Giorgia Meloni, la quale proprio per questo si è mostrata alquanto preoccupata di fronte ai suoi più stretti collaboratori per la piega che potrebbe prendere l'attivismo politico del leader del Carroccio, nel caso che questo non si fermasse dopo l'ufficializzazione congressuale della conferma alla guida del partito. E il rischio che l'ex- ministro dell'Interno possa andare dritto per la sua strada è concreto, visto che nelle ultime azioni di Salvini vi è stato un ingrediente inedito, rispetto al passato: la telefonata col vice di Donald Trump, J. D. Vance, che ha fatto andare su tutte le furie Tajani e irritare non poco Palazzo Chigi.

Un atto significativo, che la stessa Casa Bianca non ha voluto tenere sottotraccia, un segnale inviato alla parte della maggioranza che vede ancora con scetticismo una linea schiacciata sul nuovo corso di Washington. In questo scenario, infatti, Salvini è l'unico a non avere le mani legate da ruoli istituzionali o da rapporti internazionali che ne vincolino l'agibilità politica, come accade invece per Meloni in qualità di capo dell'esecutivo o di Tajani come appartenente alla stessa famiglia politica di Ursula von der Leyen.

Il segretario leghista è l'unico a poter cavalcare senza freni inibitori l'aggressività di Trump, Vance e Musk, ponendosi di fatto come potenziale, principale garante della nuova amministrazione da questa parte dell'Atlantico. In questa bagarre precongressuale, però, le preoccupazioni maggiori sono a carico della premier, perfettamente conscia del fatto che un eventuale peggioramento dei fondamentali economici del nostro paese dovuto all'ineluttabile introduzione dei dazi sui prodotti europei da parte degli Usa graverà principalmente sul suo consenso.

Spostare il focus su questioni squisitamente culturali o ideologiche come il manifesto di Ventotene, per stimolare la reazione delle opposizioni potrebbe non bastare, quando servirà mettere nero su bianco come la si pensa sul protezionismo, sul riarmo europeo o sul proseguimento dell'invio di armi all'Ucraina. Problemi che Salvini non ha, nel suo defilato

osservatorio governativo del ministero dei Trasporti. Sarà forse per questo che il ministro degli Esteri si è rivolto a lui parlando di “quaqquaraquaquà” (la messa a punto del portavoce azzurro Nevi, per il quale Tajani non si rivolgeva a Salvini, non è stata presa seriamente da nessuno), e sarà per questo che in maggioranza sia FI che FdI hanno tenuto a ribadire che la politica estera la fanno il premier e il ministro competente, anche se questa presa di posizione difficilmente farà recedere il segretario leghista dall'intento di alzare ulteriormente i toni.

C'è stato un momento, dopo i “vaffa” dei giovani leghisti indirizzati da Pontida al leader azzurro, in cui molti si erano convinti del fatto che da via Bellerio non sarebbero arrivati attacchi veementi contro Tajani, ma il mutato clima internazionale, con i nuovi spazi che si sono aperti per i sovranisti, hanno fatto il resto.

Per il momento, tutti gli esponenti di maggioranza interpellati dagli addetti ai lavori hanno confermato che non ci sarà un vertice di maggioranza, almeno fino alla conclusione del congresso leghista, prevista per il 6 aprile a Firenze, ma dopo quella data, di fronte ad un'ulteriore escalation salviniana, il segretario azzurro avrebbe fatto balenare alle orecchie della premier uno di quei feticci della Prima Repubblica che costituiscono un vero e proprio spauracchio per i politici ( in primis Meloni) che si vedono come picconatori delle liturgie della vecchia politica: la “verifica di governo”. Si è in realtà molto lontano da un'ipotesi di crisi di governo, ma per la presidente del Consiglio la fase che si sta avvicinando comporta più trappole che occasioni di successo. Anche i segnali sempre più chiari che giungono dal Quirinale lasciano intuire che trovare il bandolo della matassa sarà difficile.

Ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, rispondendo alle domande di alcuni ragazzi, ha affermato che «i dazi creano ostacoli ai mercati, alterano il mercato, penalizzano i prodotti di qualità e questo per noi è inaccettabile ma dovrebbe essere per tutti i Paesi del mondo inaccettabile». Parole che Meloni non può non tenere nel dovuto conto ( a differenza di Salvini) e che potrebbero portare a un raffreddamento dei rapporti con Washington.