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Gioco, partita incontro. È letteralmente impossibile minimizzare il successo ottenuto da Giorgia Meloni con la liberazione di Cecilia Sala e infatti nessuno si azzarda a provarci. Al contrario, i ringraziamenti e il plauso per il governo stavolta sono unanimi a partire da Schlein e Conte.
La liberazione della giornalista in tempi brevi sarebbe stato comunque un risultato eccellente per la premier ma lo è tanto più in quanto lo scambio con l'Iran, che probabilmente è stato promesso e organizzato, non ha dovuto essere esplicito. Cecilia Sala è stata scarcerata senza dover attendere la contestuale liberazione dell'ingegnere iraniano Abedini, o il suo spostamento ai domiciliari. Infine è a tutti chiaro, senza bisogno di rivendicarlo, che il merito della conclusione positiva di una crisi pericolosa va essenzialmente alla presidente del Consiglio.
La situazione si è sbloccata solo quando, nel vertice della settimana scorsa, Meloni ha deciso di gestire personalmente la vicenda, e senza neppure comunicare le sue mosse agli altri ministri, ed è volata in Florida per l'incontro con Trump che, con ogni probabilità, è risultato decisivo. La sua presa sulla maggioranza e sul resto del governo era già molto salda. D'ora in poi sarà indiscutibile e dunque indiscussa. Giusto per fare un esempio: se deciderà, come è molto probabile, di procedere con l'accordo Starlink anche i più dubbiosi e critici come il vicepremier Tajani non andranno oltre qualche neanche troppo rumoroso borbottio.
La leader della destra italiana segna però un punto molto rilevante non solo sul palcoscenico della politica interna ma anche, forse anzi soprattutto, su quello internazionale. La premier italiana è corsa da Trump ma riuscendo a non suscitare nemmeno il dubbio di essersi inquadrata nel corteo che sfila per baciare la pantofola del prossimo presidente degli Usa. Al contrario si è smarcata dal gruppo dei vassalli che lo applaudirà il prossimo 20 gennaio, composto da praticamente tutti gli altri leader della destra europea, ed è stato lo stesso Trump a segnalare l'atteggiamento determinato, addirittura aggressivo dell'ospite italiana.
Giorgia, insomma, ha sfruttato con massimo tempismo la crisi derivata dal doppio arresto di Abedini e Sala per occupare subito, ancor prima che Trump sia presidente in carica, la postazione alla quale mira sin dall'inizio: quella dell'unica leader europea considerata alleata leale e dunque affidabile sia dal presidente americano che da quella della Commissione europea. Non è certo un caso se, prima di volare a Mar-a-Lago, la presidente italiana si è preoccupata di avvertire non i suoi ministri e alleati ma Ursula von der Leyen.
Sia Trump che la Ue, oggi, hanno bisogno di un canale di comunicazione, una cerniera che sarà tanto più necessaria in quanto su molti fronti le frizioni e forse qualcosa di anche più grave saranno inevitabili. Meloni, senza perder tempo in dichiarazioni d'intenti, ha dimostrato nei fatti di poterlo essere ed è un precedente che avrà tutto il suo peso nei prossimi mesi e anni. Del resto è proprio dalla Commissione europea che, mentre in Italia infuria la polemica su Starlink, è arrivato a strettissimo giro un semaforo verde decisivo: nessuna incompatibilità tra il progetto satellitare dell'Unione Iris2 e l'eventuale accordo tra un singolo Stato sovrano e Space X, l'azienda spaziale di Elon Musk.
Quando ci sono vincitori devono per forza esserci anche degli sconfitti. In questo caso sono due, anzi tre. In testa alla lista ci sarebbe Joe Biden: Giorgia gli deve molto ma non gli ha nemmeno concesso quel tanto di rispetto che avrebbe imposto di impostare lo scambio dopo aver incontrato quello che è ancora il presidente degli Usa. Forse temeva che Joe frapponesse ostacoli ma forse la scelta di infliggere al nemico vinto l'ultima umiliazione è stata del suo successore.
Oppure ha prevalso l'opportunità di presentarsi oggi alla conferenza stampa di inizio anno, già "di fine anno" con lo smagliante risultato da rivendicare. Biden, comunque, era di fatto già fuori gioco, non si può definire la sua una sconfitta sostanziale. Ben diversamente stanno le cose per Salvini. E' certo che il vicepremier "trumpista" sperasse in un’impennata delle sue posizioni grazie alla vittoria di Trump. Probabilmente già si immaginava come il punto di riferimento privilegiato di Washington in Italia e sulla carta non era solo una chimera.
La premier lo ha anticipato e rimesso subito all'angolo. Esce male dalla vicenda, nonostante il profluvio di riconoscimenti, anche l'altro vicepremier, il ministro degli Esteri e capo della diplomazia. Tutti si complimentano ma tutti sanno perfettamente che c'è ben poco da felicitarsi per il ruolo di un ministro che dal primo all'ultimo giorno è rimasto in panchina.