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Non mi stupisce che Rossana Rossanda ancora una volta abbia saputo cogliere, in quella ripresa duratura del femminismo che è la rete Non Una Di Meno, la radicalità di un soggetto politico capace di portare allo scoperto il rapporto di potere e di sfruttamento che passa da secoli sul corpo delle donne. Al suo senso di giustizia attribuisco la lucidità con cui ha saputo sottrarsi a contrapposizioni semplificatorie e divisive intorno a temi come la prostituzione e la gravidanza per altri. Rossana Rossanda e la radicalità del nuovo femminismo
Se c’è un tratto particolare che distingue Rossana Rossanda dalla “donna qualunque tra milioni di altre”, appartenenti alla cultura greco romano giudaica – così come ama definirsi nell’articolo uscito su L’Espresso -, è il suo profondo senso di giustizia. Non saprei come definire altrimenti quel suo “dover essere” che l’ha portata fin dalla giovinezza a tenere fermi gli occhi sulla miseria, a diventare comunista, ma anche a riconoscere, dall’orizzonte del mondo e della grande Storia, l’anomala, imprevista “sfida” del femminismo degli anni Settanta alla politica: un movimento - scrisse allora Rossana - la cui portata “eversiva” consisteva nell’essersi inoltrato nelle “acque insondate delle persona”, in una materia segreta, imparentata con l’inconscio.
La centralità che ha avuto sempre la lotta di classe nel suo percorso di donna, marxista ortodossa, militante nel Pci fino alla sua espulsione, fondatrice de il manifesto, non le ha impedito di vedere allora la “dimensione immensa” che sta nella identità di sesso, e nella cultura femminista, non un complemento, ma una “critica vera e perciò antagonista, negatrice della cultura altra”. Ma aveva fretta Rossana, avrebbe voluto che quella presa di coscienza delle donne cadesse con tutto il suo peso dentro il mondo personale e pubblico dell’uomo, che accelerasse la scomposizione dei poteri, che investisse come tema di riflessione l’insieme delle forze e dei soggetti sociali e politici. Temeva, a ragione, che da quelle acque “un po’ torbide” sarebbe stato difficile risalire, difficile dare umanità e immediatezza alla politica senza perdere la capacità di comunicazione, senza atomizzarsi nella pure cerchia della persona.
La nostra amicizia si è collocata allora su questo crinale, fatto di curiosità, interesse reciproco e di sguardi affettuosamente critici. Non l’ho mai giudicata “una donna di potere”, non ricordo di averle neppure detto “tu sbagli” - come ha scritto in un articolo di Lapis. Capivo soltanto che la sua fretta, dopo l’avvicinamento degli anni Settanta e Ottanta - le trasmissioni su Radio Tre sulle parole della politica in dialogo con amiche femministe, gli articoli raccolti nel libro Anche per me, in cui ammetteva di essersi concessa “qualche scorreria” in territori del pensare rimasti per lei privati, vincendo l’indiscrezione del raccontarsi -, l’avrebbe allontanata da noi. Non è stato così, come dimostra la sua collaborazione negli anni 90 alla rivista Reti, diretta da Maria Luisa Boccia, e alla mia rivista Lapis, a cui ha regalato pagine sorprendenti per la coraggiosa esposizione di sé - il rapporto col suo corpo, l’invecchiamento, la morte, l’amicizia tra donne, la dipendenza dalle immagini del femminile ricevute dall’altro sesso e stratificate nella memoria profonda di ogni donna. Ma soprattutto, come ci tiene a sottolineare nell’articolo su L’Espresso,
ha condiviso tutte le battaglie delle donne, sia pure con qualche riserva.
Non mi stupisce perciò che, ancora una volta, con una maggiore distanza generazionale, abbia saputo cogliere, in quella ripresa duratura del femminismo, che è la rete Non Una Di Meno, la radicalità di un soggetto politico capace di portare allo scoperto il rapporto di potere e di sfruttamento che passa da secoli sul corpo delle donne, dalla sessualità alla maternità, dalla divisione sessuata del lavoro al binarismo di genere, all’eterosessualità obbligatoria, vista come fondamento biologico della famiglia patriarcale. Al suo senso di giustizia attribuisco la lucidità con cui ha saputo sottrarsi a contrapposizioni semplificatorie e divisive intorno a temi come il polimorfismo sessuale, la prostituzione e la gravidanza per altri. Quello che più conta per ogni scelta – dice Rossana -, anche quelle su cui abbiamo riserve, è la libertà di chi la pratica. Così è per l’aborto - «va eliminata dalla 194 l’obiezione di coscienza da parte dell’operatore della sanità pubblica» -, così per la Gpa - «impedirla vorrebbe dire mettere un limite alla libertà della donna e dell’uomo che lo desidera». Ma poi aggiunge: «Non per questo si deve ignorare che consentirla comporta un pericolo permanente di mercificazione».
Altrettanto articolato nella sua complessità e nelle sue contraddizioni è il giudizio che Rossana dà per l’uscita dal binarismo sessuale: se sono augurabili forme più libere, polimorfiche, di sessualità e di famiglia, è importante tenere conto che non scompare per questo la tentazione di fissare regole, leggi, e di conseguenza nuovi rapporti di potere, che si parli di un terzo sesso, nuove intimità o famiglie omogenitoriali. Piuttosto che “nuove definizioni”, dichiara in modo sorprendente, meglio “incertezze e disordine”. Al suo sguardo partecipe e insieme “luciferino” non poteva sfuggire neppure quel “patto” che ha visto per secoli le donne esercitare, nella indispensabilità all’altro, un sottopotere sostitutivo di altri loro negati.
Dalla sua intelligenza profondamente umana e dalla sua passione politica, abbiamo ancora molto da imparare.