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Dicono che, nel diluvio di critiche piovutegli addosso dopo il blitz contro il governatore di Bankitalia Visco, una sola abbia colto Matteo Renzi di sorpresa, mandandolo fuori dai gangheri: quella di Walter Veltroni. «Gli abbiamo fatto aprire la manifestazione per i 10 anni del Pd e lui ci ripaga così!», sibilavano mercoledì sera i fedelissimi del segretario. In realtà un certo disagio del padre fondatore lo si era colto anche prima che esplodesse la bomba della mozione anti Visco. Veltroni aveva plaudito a quelle alleanze che segnano in realtà la fine del suo modello di Pd. Salvo precisare che intendeva alleanze a sinistra e non con il centrodestra, l’antico Ulivo insomma, non il nuovo Pd di Renzi. Già sul palco aveva insistito nell’adoperare quella parola che nel partito nato dalla discendenza del Pci è più di tutte imbarazzante ' sinistra'. Aveva bollato con toni perentori quella possibile alleanza post- elettorale con Berlusconi che è la vera carta si cui scommette Renzi per rientrare a palazzo Chigi.
Quello dell’Eliseo, insomma, era un Veltroni renziano più nell’apparenza che nella sostanza, e non dovrebbe quindi stupire più che tanto la decisione di unirsi al plotone che ha bersaglia il ragazzo di Rignano da tre giorni. Del resto già all’Eliseo a molti era sembrato di trovarsi di fronte a un Veltroni diverso da quello degli ultimi anni, il regista e scrittore abituato a ripetere che si può fare politica in modi diversi da quelli usuali: nei partiti e in Parlamento. Lui nega fieramente. Con la politique politcienne conferma di avere chiuso. Ma si sa che nella politica ita- liana le parole tutto sono tranne che pietre e l’abitudine di spenderle a cuor leggero, dal trasferimento in Africa annunciato dallo stesso Veltroni, all’abbandono della politica promesso da Renzi, non conosce distinzioni generazionali. In fondo, se le prossime elezioni dovessero comportare un terremoto nel Pd nessuno più di Veltroni sarebbe indicato per ricostruire un terreno comune lacerato, riannodare un dialogo con gli scissionisti e ripristinare un’immagine gloriosa del Pd e del centrosinistra.
Anche Walter Veltroni, sia chiaro, ha al passivo la sua brava dose di errori e sconfitte. Ma almeno lui nell’arte del cadere sempre in piedi, impareggiabile. Merito di un savoir faire che è in parte naturale e in parte meticolosamente studiato. Merito soprattutto di un controllo sui media che in Italia non teme confronti. Le jene dattilografe italiane, si sa, hanno il vizietto di vezzeggiare i potenti salvo sbranarli appena inciampano. Veltroni è sempre stato l’eccezione.
Che fosse in postazione torreggiante oppure boccheggiante, stampa e tv lo hanno sempre sostenuto in egual misura.
Anche questo è il meritato frutto di un lavoro strenuo e di un investimento a lungo termine. Veltroni coltiva quel campo da quando era solo un consigliere comunale romano di belle speranze e a dovergli qualcosa sono legioni. Del resto l’imberbe Walter si era fatto le ossa proprio grazie a un intervento sull’adorata Tv. Entrato per la prima volta a Montecitorio nel 1987, a 32 anni, si lanciò subito nella feconda crociata contro le interruzioni pubblicitarie, cemento del castello berlusconiano. La campagna ' Non si interrompe un’emozione' non ebbe gran successo. La legge non fu approvata. Il re- ferendum contro gli spot fu qualche anno dopo sconfitto. In compenso il trampolino si rivelò perfetto per il campion emergente del Pci, tra i più sfegatati sostenitori della svolta che avrebbe dato vita al Pds.
Il primo salto lo porta, nel ‘ 92, alla Direzione dell’Unità. Walter è un turbine di iniziative, sforna gadgets come una catena di montaggio: libri, videocassette, musica, figurine. Un bazar. I risultati arrivano: oltre 30mila copie in più nel giro di 3 anni. I costi, esosi, si scopriranno solo dopo la dipartita del direttore. Nel ‘ 97 lo storico quotidiano, salassato dall’era Veltroni, imbocca la via crucis destinata a durare vent’anni, prima di concludersi sul Golgota.
Ma a quel punto Veltroni si è già imbarcato in ben altre avventure. Nel 1994 sfida l’amico e coetaneo D’Alema per la segreteria del Pd. Walter, tipo prudente, per la verità preferirebbe evitare. I sostenitori del segretario uscente, Achille Occhetto, gli forzano la mano nella speranza di sbarrare la strada all’odiato Baffino. Nella consultazione interna al Pds il direttore arriva prima, poi il consiglio nazionale rovescia il verdetto. I redattori lo consolano con una confezione gigante dell’adorata Nutella, ma la vera consolazione è che quella sconfitta consacra Walter come una specie di diarca, l’eterno amiconemico di D’Alema.
Nel 2006 Prodi monta sul pullman per un lunghissimo tour elettorale Veltroni è con lui nei panni del vice, che continuerà a indossare a palazzo Chigi per un paio d’anni. Quando il professore capitombola, nel 1998, D’Alema lo sostituisce e automaticamente il diarca occupa la segreteria Ds. Però le elezioni del 2001 si avvicinano e i pronostici sono più infausti. In effetti i Ds raggiungeranno il minimo storico, col 16,6% dei voti. Per qualsiasi segretario sarebbe una rotta. Non per Walterino, che a sorpresa aveva mollato la nave un attimo prima dell’impatto con l’iceberg candidandosi a sindaco di Roma.
Una storia di luci e ombre, quella romana. Il primo mandato è un successone. Le periferie, neglette a vantaggio della solita giostra di iniziative concentrate al centro, borbottano. Ma il Pil è il più alto d’Italia, il ' modello Roma' tira, il sindaco ottiene un secondo mandato con ampio consenso. Sarà l’ultimo atto della sua vita da politico attivo, promette: l’Africa lo aspetta. Invece si ritrova chissà come a guidare il nuovo partito che fonde Ds e Margherita, il Pd. Usa Roma come volano della campagna elettorale, svuotando i forzieri fino a determinare la crisi che da allora strangola la Capitale. Nella fretta di provare il partitone nelle urne si adopera per sgambettare il secondo governo Prodi: un peccatuccio che gli verrà perdonato senza nemmeno una ramanzina, a differenza di quanto capitato a D’Alema che ancora paga la manovra losca del 1998.
Anche quelle elezioni, finite col trionfo di Berlusconi, sono state un capolavoro nell’arte di cadere in piedi. Lo sconfitto riuscì a rivendersele come un successone, avendo ' semplificato il quadro politico'. Poi è uscito di scena al momento giusto. Se ricomparirà sarà nuovo di zecca.