PHOTO
Ursula von der Leyen, presidente della commissione europea
l voto di Strasburgo parla da solo e dice che Giorgia Meloni e Elly Schlein hanno un problema grosso. FdI e Fi hanno votato a favore del riarmo, passato con 419 sì, 204 no e 46 astenuti. La Lega si è schierata contro. La votazione di ieri sul riarmo europeo non era vincolante e del resto Ursula von der Leyen ha già stabilito di procedere senza bisogno di sostegno da parte dell'Europarlamento. Divisioni del genere nella destra italiana si erano già registrate più volte a Strasburgo. Il voto di ieri non è una tragedia. Però lo diventerebbe se si riproducesse la settimana prossima nel Parlamento italiano: non sarebbe automaticamente crisi di governo ma quasi sì. Questione di tempo e non ce ne vorrebbe troppo.
La formula che Palazzo Chigi sta freneticamente cercando di mettere a punto per evitare un esito disastroso la settimana prossima sarà quasi certamente una classica mozione all'insegna dell'ambiguità, di quelle che ognuno può interpretare a modo proprio. Sotterfugi del genere non sono certo una novità nella politica italiana. Ma se la temperie nella politica internazionale restasse quella che è o, peggio, se la tensione s'impennasse ulteriormente il gioco di prestigio, sempre che lo staff di Giorgia riesca ad allestirlo e non è detto, si rivelerebbe solo polvere inutilmente nascosta sotto il tappeto.
A sorpresa il voto sulla seconda risoluzione, quella sull'Ucraina passata con 442 voti a favore, 98 contrari e 126 astenuti, si è rivelata altrettanto traumatica per il partito della premier. Colpa di un passaggio molto duro nei confronti di Trump, tanto da far dire al capogruppo tricolore all'Europarlamento Procaccini che il testo «finirebbe per scatenare odio verso gli Usa».
A nome dell'intero gruppo dei Conservatori e tenendo conto dell'accordo tra Usa e Ucraina raggiunto il giorno prima Procaccini aveva quindi chiesto di rinviare la votazione a quando il quadro sarà meglio definito. Proposta respinta come del resto, in tema di armi, quella sempre targata FdI di cambiare il nome del Piano sostituendo il riferimento alle armi con quello alla Difesa.
Di conseguenza qui FdI si è astenuta ed è uno strappo in piena regola dal momento che il partito della premier aveva sempre e con la massima determinazione votato a favore del sostegno a Kiev. Tenersi nel mezzo tra Washington e Bruxelles diventa sempre più difficile e se si renderà inevitabile scegliere non è affatto detto che Giorgia privilegi l'amica Ursula rispetto agli amiconi Donald e Elon. Sull'Ucraina dunque
la maggioranza ha sfoderato non due ma tre posizioni distinte: contraria alla mozione la Lega, favorevole Fi, astenuta appunto FdI. Sulla carta anche la sinistra, in materia di riarmo, si è divisa in due, con il no di M5S e Avs e l'astensione decisa nella notte, dopo lunghissime esitazioni, dalla segretaria Schlein. In realtà le posizioni sono però 3 e l'illusione ottica è dovuta al fatto che due di queste convivono molto scomodamente nel Pd.
Su 21 europarlamentari 10 hanno ignorato la decisione del vertice e hanno votato a favore del piano di riarmo. Il partito è dunque spaccato a metà ma Elly deve oltretutto ringraziare san Goffedo Bettini se la sua posizione non è risultata minoritaria. La diplomazia dell'eminenza grigia ha convinto infatti un paio di eurodeputati propensi a votare per il ReArm ad accettare la mediazione e astenersi.
Nel Parlamento italiano il rapporto tra maggioranza schleiniana e minoranza non è certo così sbilanciato a favore della seconda come a Strasburgo. In compenso una spaccatura in casa avrebbe effetti molto più destabilizzanti. Ma una strada per tirarsi fuori dal guaio per Elly non c'è e forse se ci fosse sarebbe un rimedio peggiore del male: l'astensione a Strasburgo era sostenibile, tanto più che la risoluzione era presentata anche dal Pse nel quale il Pd rappresenta la principale delegazioni. Ma a Roma, dopo essersi così apertamente esposta contro il riarmo, l'astensione suonerebbe come una resa.
Il problema, sia per l'una che per l'altra leader, è quasi inaggirabile perché deriva da una spostamento radicale dell'asse della politica mondiale. Gli esteri, un po' perché le scelte erano spesso più o meno obbligate e un po' anche per provincialismo, non sono mai stati ai primi posti nell'elenco delle bombe a orologeria potenzialmente micidiali. Sia la leader della destra che la segretaria del Pd avevano dunque tutte le ragioni per considerare le divisioni all'interno delle coalizioni e nel caso del Pd dello stesso partito come un problema non certo secondario ma neppure esiziale. Ma le cose sono cambiate. Senza una possibile fase di distensione, senza che 'scoppi la pace', le divisioni sulla politica estera sono destinate a rivelarsi sempre più ingovernabili.