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Il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi insieme alla premier Giorgia Meloni
Che l’opposizione chieda le dimissioni di un ministro o di un esponente della maggioranza in posizione di responsabilità non è cosa infrequente, anche se nei suoi pochi di mesi di vita il governo Meloni sta battendo ogni record. Però che la richiesta crei palesi imbarazzi nella maggioranza, che faccia emergere crepe invece di una compatta resistenza, è decisamente inusuale. Tuttavia proprio in questa imbarazzante situazione si trovano e continuano a trovarsi a più riprese governo e maggioranza.
Ieri la stessa maggioranza ha fatto muro intorno a Piantedosi. Il collega Lollobrigida, uno dei megafoni di Giorgia, lo ha definito “un grande ministro”. Lui stesso, alla Camera come il giorno prima al Senato, ha corretto il tono delle sue dichiarazioni a caldo sulla tragedia di Crotone e ci si può facilmente immaginare la faccia della premier di fronte a quelle dichiarazioni, tali da offrire un’immagine del governo opposta a quella che cerca di costruire lei da palazzo Chigi. La reazione iniziale di FdI, con il “fuoco amico” ad alzo zero del presidente della commissione Affari costituzionali Balboni, rivela chiaramente la prima e più sincera reazione dei tricolori. Oltre non era possibile andare: toccare l’ex prefetto significava prendere di mira Salvini, che lo ha imposto come ministro dopo il veto sul suo nome. Il fuoco di sbarramento del Carroccio, che ieri per tutto il giorno ha denunciato «il tentativo di processare ministro e guardia costiera invece dei veri responsabili, i trafficanti», serviva anche a mettere in guardia gli alleati.
Goffe scuse ministeriali a parte, il governo ha messo sul tavolo una sorta di «risarcimento politico» molto pesante: Lollobrigida aveva parlato di 500mila immigrati regolari necessari per l’economia. Piantedosi, nell’audizione di ieri, ha alluso esplicitamente alla possibilità assecondare quella cifra. È anche questa una tendenza che per il governo sta diventando un’abitudine, la necessità, per recuperare figuracce e sbagli facendo non uno ma molti passi indietro. Nel complesso la popolarità della premier non è stata neppure scalfita dalle gaffes dei suoi ministri e stretti collaboratori: quella del governo però sì e senza un tempestivo intervento sulle modalità di comunicazione non ci vorrà molto prima che le acque arrivino anche al santuario di palazzo Chigi.
Il punto però non riguarda solo l’analfabetismo nella comunicazione, che pure non è un fattore secondario. La realtà è più pesante: i passi falsi di Donzelli e Delmastro possono essere recuperati, una conclusione tragica del caso Cospito traccerebbe un solco. Le parole di Piantedosi verranno dimenticate: l’eventuale accertamento di responsabilità precise nel mancato soccorso a Crotone non permetterebbe vie di fuga. Anche perché la nuova leadership del Pd incalzerà molto più di quella precedente. Elly Schlein, a differenza dell’intera vecchia guardia, non ha responsabilità in scelte sciagurate come il finanziamento ai torturatori libici per fermare le partenze. Potrà muoversi quindi con ben altro agio e affondare la lama, anche per mettere in difficoltà il competitor Conte, che nella vicenda dei lager libici è coinvolto quanto il Pd se non di più.
Quelle del governo sono responsabilità politiche più che dirette. La sua strategia passa per il rendere più insicuri e pericolosi gli arrivi in Italia, con l’obiettivo di scoraggiare le partenze. Ma è una strategia che aumenta per forza i pericoli e incide sul comportamento anche della guardia costiera, indirettamente ma inesorabilmente, creando determinate “condizioni ambientali”. Per questo, se la magistratura arriverà alla conclusione che le vittime di Crotone potevano e dovevano essere salvate e che dunque ci sono stati negligenza e reato di mancato soccorso, neppure lo scudo di Salvini basterà a salvare il prefetto-ministro.