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La prima uscita pubblica ha squadernato quel che era già palese: tra Renzi e D'Alema lo scontro, più che sulle norme referendarie, è su due visioni contrapposte e inconciliabili della sinistra.Tra abbondanti dosi di sarcasmo e scetticismo, tanti ritengono che l'impegno dell'ex premier si trasformi in un boomerang per il No al referendum costituzionale. Il ragionamento è semplice: D'Alema rappresenta il "vecchio", è l'emblema della sinistra col vizietto dell'inciucio e lo stigma della sconfitta; quella che l'avvento di Matteo Renzi ha contribuito a mettere definitivamente nell'angolo. Proprio per questo D'Alema, cui non difettano accortezza ed esperienza politica, nel battesimo del Comitato per il No che sarà guidato da Guido Calvi, «un giurista non iscritto al Pd così non diranno che vogliamo fare una nuova corrente», da un lato delegittima il Pd attuale e la sua leadership: «Milioni di elettori hanno smesso di votare Pd; centinaia di migliaia hanno rinunciato ad iscriversi. C'è un partito senza popolo e un popolo senza partito»; dall'altro allarga i confini della sua azione coinvolgendo un intero segmento sociale "riformista" che oggi è troppo deluso e si rifugia nell'astensionismo: «Non perdiamoci di vista, anche dopo. C'è bisogno di uno spazio di partecipazione e militanza in cui ci senta orgogliosi di far parte della sinistra, del centrosinistra e del mondo cattolico democratico». E' l'offerta del sogno di un riscatto, di una ritrovata dimensione identitaria unita all'orgoglio dell'appartenenza.E' legittimo domandarsi se sia questo il terreno migliore sul quale D'Alema possa immaginare di prevalere. Certamente però è tra i più insidiosi per l'attuale inquilino di palazzo Chigi. Quando infatti l'ex segretario Pds avverte che se vince il No «viene spazzato via il Partito della Nazione», sa di toccare una corda sensibile nel cuore di una fetta rilevante di elettori. Come pure quando assicura di non voler fondare un altro partito: un modo esplicito per contrastare chi intende costringerlo ad indossare i panni dello scissionista.Renzi è ovviamente consapevole del rischio che l'offensiva di D'Alema comporta. Per questo replica, non a caso, sottolineando i caratteri di innovazione che la riforma costituzionale contiene: il nuovo contro il vecchio; la modernità contro la palude. «Questa consultazione popolare non riduce la democrazia bensì le poltrone. Semplifica i rapporti tra Stato e regioni. Evita il ping-pong incomprensibile tra Camera e Senato. Aumenta la partecipazione dei cittadini abbassando il quorum al referendum. Abolisce enti inutili». Fa insomma quello che la fallita Bicamerale presiduta da D'Alema non ha fatto. E pazienza se c'è qualche scivolata verso toni grillini: l'importante è chiarire agli italiani che la vera sfida è tra innovazione e immobilismo; tra cambiamento e conservazione: ed è inutile spiegare chi incarna l'uno e chi l'altro.Per nulla velatamente, Renzi si rifà ad un sentiment fortemente presente nell'elettorato di centrodestra: è da quelle truppe, infatti, che il capo del governo immagina di guadagnare i consensi decisivi per la vittoria finale. Ma per certi versi anche D'Alema si rivolge a quel popolo: per evidenziare che la sua offerta consentirà di tornare a distinzioni e ruoli ben delineati e distinti, ad un bipolarismo di tipo europeo che invece in Italia oggi ha contorni tutt'altro che ben distinguibili.Insomma si tratta di una scommessa double face. Da un lato, Renzi punta a far emergere e portare alle urne tutte quelle forze che vogliono far recuperare autorevolezza e capacità di autoriforma alla politica e che oggi sono acquartierate nell'astensionismo; dall'altro D'Alema vellica il valore dell'idenitità di un pezzo di Paese che si sente privo di rappresentanza, una costituency che si sente priva di bussola e traguardi. Renzi esalta i contenuti di una riforma che sana una volta per tutte decenni di ritardi. D'Alema bolla quelle norme come «paccottiglia ideologica da demistificare». Non un confronto dunque: caso mai una battaglia senza quartiere. Anche di linguaggi.Sullo sfondo resta, ben visibile, il Moloch della legge elettorale: pure su questo fronte le distanze sono abissali. Ma ancor di più si staglia la questione del "dopo", quella che inquieta il Colle e le maggiori Cancellerie internazionali, mentre acuisce gli appetiti di frotte di speculatori nei mercati. Qui sia Renzi che D'Alema si spendono per assicurare che chiunque vinca non ci saranno disastri. Vero. Tuttavia gli scenari sono naturalmente di segno opposto. Per quanto si sforzi di "spersonalizzare" la consultazione popolare, il premier sa che una sconfitta del Sì lo colpirebbe sotto la linea di galleggiamento, fino a farlo affondare. Di converso, la sconfitta del No azzerebbe lo spazio d'azione delle minoranze Pd e presumibilmente chiuderebbe definitivamente il conto con la sinistra di radice post-comunista.Eppure, scavando, forse c'è anche qualcosa di più. C'è la contrapposizione tra due diverse idee dell'Italia, tra due diversi modi di rivolgersi al futuro. Tra chi vuole tagliare con una storia e chi si sforza di farla riemergere. Tra famiglie politiche che si sono giocate ruoli di governo e di opposizione compitando il copione di un duopolio non scritto eppure ferreo, con i Cinquestelle nella parte di un derivato, tossico.Dove sta il pericolo maggiore? Che alla fine non ci sia alcun vincitore ma unicamente uno stuolo di sconfitti.