Il problema di Giorgia Meloni si riassume in una frase che in questi giorni circola un po' ovunque a palazzo Chigi: «Non si può mettere Salvini nella situazione di chi non ha più niente da perdere». La premier vuole vincere, però non può arrivare al punto da mettere l'alleato con le spalle al muro e pronto a tutto: facile a dirsi, molto meno a farsi.

Si prenda il caso della Sardegna che, anche per l'imperizia di chi ha condotto la vicenda da Roma ( Donzelli) e dall'isola ( Zedda), ha assunto un rilievo che va molto oltre una pur importante prova regionale: la premier, con l'intero centrodestra tranne Lega e alleati locali del Partito sardo d'azione e con i sondaggi del presidente uscente Solinas raso terra, ha imposto il suo candidato, il sindaco di Cagliari Truzzu, al posto di Solinas senza sforzo. Il disturbo di una doppia candidatura ci sarebbe ovviamente ma, stando ai sondaggi, di portata limitata e comunque non paragonabile al disastro che la candidatura Soru rischia di determinare per la candidata dei 5S e del Pd, Alessandra Todde. Ma il problema è proprio quello: stracciare la Lega si può, ma aspettarsi che il fattaccio resti poi senza conseguenze sarebbe chiedere troppo.

Oppure si consideri la candidatura della premier in tutti i sondaggi alle Europee. Lei ci tiene moltissimo ma le rilevazioni la confortano. La sua presenza in lista imprimerebbe a FdI uno slancio notevole, tale da siglare forse un trionfo che condizionerebbe poi il prosieguo della legislatura sia nei rapporti con l'opposizione, peraltro già ammutolita, sia con gli alleati. Ma la nota dolente è proprio questa: gli alleati verrebbero umiliati da un trionfo solitario della premier e anche in questo caso nessuno può prevedere come reagirebbe un Salvini in corsa vertiginosa sul viale del tramonto. Quindi, anche qui, la premier deve stare attenta soprattutto a dosare la propria forza.

In parte è un problema che si era dovuto porre già Silvio Berlusconi, ma con delle differenze sia di carattere che di obiettivi politici non trascurabili, anzi decisive. Berlusconi era un leader molto generoso, almeno fino a che non veniva messa in discussione

la sua sovranità, che era però una sovranità “illuminata” e pronta a concedere moltissimo agli alleati. Il Cavaliere, inoltre, non ha mai avuto un vero progetto politico se non limitato al ruolo del suo partito, della sua azienda e suo personale. In un certo senso, nonostante sia stato per almeno vent'anni il perno del sistema politico italiano, non è mai diventato un politico al 100 per cento. Meloni, al contrario, ha una visione politica che mira a realizzare e nutre anche grandi ambizioni, non limitate alla permanenza al governo.

La somma delle due differenze porta a un esito preciso: la premier sa di non dover stravincere, è consapevole di dover concedere qualcosa di concreto a Salvini ma non riesce a decidersi perché, per come è fatta, le costa troppo. Si torni alla Sardegna. Il prezzo della Lega è evidente: la garanzia che la roccaforte veneta non verrà toccata. C'è un solo modo per garantirlo ed è varare per decreto la proposta di portare a tre i mandati dei governatori. Un passo che, per Salvini, va fatto subito, prima delle Europee, approfittando del decreto sull'election day che porterà a tre i mandati per i sindaci dei Comuni di oltre 15mila abitanti. L'occasione è perfetta ma soprattutto il leader leghista vuole che l'innalzamento del tetto sia cosa fatta prima delle Europee, perché teme che, sulla base di un probabile esito molto positivo, la premier sarebbe tentata di rimettere tutto in discussione. Giovedì sera, dopo il vertice di palazzo Chigi sui cui contenuti, per una volta, i leader hanno tenuto davvero la bocca chiusa, l'intesa sembrava fatta proprio in questi termini. Ma la premier invece ancora esita e certo non solo per il “parere contrario” di Tajani, peraltro pochissimo combattivo: «Non sono granché d'accordo ma deciderà il Parlamento». Formula che comunque, pur non ponendo veti, boccia la strada salviniana del decreto.

Il problema non è Tajani: è la stessa premier che non riesce a rinunciare alla conquista del Veneto, pur rendendosi conto che per la Lega lo schiaffo sarebbe intollerabile, proprio come fatica a sacrificare il sogno di trasformare le Europee in un plebiscito su se stessa.