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C'è una contraddizione nella strategia politico-comunicativa del fronte del Sì (ce ne sono anche su quello opposto: da questa parte però, per ovvii motivi, risaltano di più) che per ora è appena accennata ma che minaccia di acquisire sempre più peso nel corso della campagna elettorale referendaria al punto da diventare determinante. Si tratta di questo. Nel tentativo, necessitato, di spersonalizzare la consultazione popolare, Matteo Renzi da tempo ha rovesciato l'impostazione originaria, per ultimo arrivando a sostenere che i No e i Sì sono sullo stesso piano in quanto a legittimità e dunque non si tratta di una ordalia bensì della pronuncia degli italiani su un pacchetto di misure certamente importanti ma che, se respinte, non provocherebbero collassi istituzionale o sociali. Continuando su questa linea e avvalorandola, il premier ha anche aggiunto che nel caso in cui prevalessero i contrari «comunque si andrebbe ad elezioni politiche alla scadenza naturale» della legislatura.Il senso di tale impostazione è evidente: si tratta di tagliare le unghie a chi prevede sfracelli e in particolare alle schiere di speculatori, finanziari e no, pronti ad approfittare di possibili difficoltà del Paese per arrecare vantaggio ai propri, ancorché legittimi, interessi politici e/o personali.Nel contempo però, in particolare nei talk ma anche in svariate e approfondite analisi sui giornali, dagli stessi ambienti parte il monito sul fatto che la vittoria dei No intaccherebbe in modo pregiudiziale la credibilità italiana nei confronti dell'Europa, mettendo a rischio la fiducia dei mercati e delle Cancellerie verso la capacità del Paese di marciare su un percorso riformista chiaro e definito. Il che non solo ridimensionerebbe il ruolo ed il peso dell'Italia nel direttorio con Germania e Francia, ma finirebbe inevitabilmente per creare problemi per quel che riguarda il via libera alla agognata flessibilità finanziaria di cui i conti pubblici hanno bisogno come il pane.Da un lato dunque un effluvio di messaggi rassicuranti sul fatto che la stabilità non verrebbe meno qualunque fosse il risultato referendario; dall'altro la sostanziale smentita di quella medesima narrazione paventando pericoli concreti e devastanti nel caso in cui il carniere renziano restasse vuoto.E' evidente che più si va avanti più le due tesi sono destinate a scontrarsi: alla fine solo una delle due - presumibilmente la seconda per i decisivi obiettivi di palazzo Chigi - sopravviverà.Solo che le conseguenze, in qualunque caso, non saranno indolori. Se infatti il rischio di una lesione alla credibilità e autorevolezza italiana con la vittoria del No finirà per prevalere - con il roccioso effetto collaterale di dimissioni renziane o comunque di un sostanziale ridimensionamento della sua leadership - di fatto la personalizzazione cacciata dalla finestra rientrerà dalla porta. E nel modo più urticante. Non solo. Da quel che si è capito, la fissazione dell'apertura delle urne non è più considerata così stringente dal governo. Se ne parlerà ad ottobre, ed il ministro Maria Elena Boschi ha lasciato intendere che si potrebbe perfino votare a dicembre. Ossia nel pieno svolgimento della sessione di bilancio: come è noto, la salvaguardia della legge di Stabilità sta molto a cuore al Quirinale. Però per centrare gli obiettivi di riduzione fiscale, il premier dovrà ottenere la flessibilità della Ue prima che si sappia il risultato referendario. Dovrà cioè convincere i partner europei che vincerà. Ovviamente dovrà coerentemente sotterrare l'idea che comunque vada la stabilità italiana non verrà intaccata. E si torna al punto di prima: massima personalizzazione della posta politica in palio, ed annessa enfatizzazione dei pericoli di una eventuale vittoria dei No.Nelle pieghe, c'è anche un altro risvolto che può incrinare malrisposte certezze. Nel senso che il richiamo alla necessità di dimostrare alla Ue di essere affidabili sul piano delle riforme, allo stato stride con un sentimento popolare che vede la spinta europeista ai gradini più bassi della popolarità. Complice il gigantesco dramma dell'immigrazione, tanti sono tentati di soffiare nelle vele dell'antieuropeismo per un riflesso che mischia paure ed incertezze sul futuro. Perciò spingere l'accelleratore sullo stare al passo delle Ue invece che un atout minaccia di trasformarsi in un autogol. Del resto se una lezione viene dalla Brexit, dove pure i pericoli del "leave" furono ingigantiti a dismisura, è proprio questa: all'Europa che non piace o che non funziona, è giusto voltare le spalle. Vittoria del No a braccetto con Italexit? Miscela esplosiva.