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Partiamo dall’inizio. Il termine populismo col quale vengono indicati in Italia i 5s e la Lega di Salvini, non ha nulla a che fare col movimento politico e culturale che si affermò alla fine dell’Ottocento in Russia. In Italia, oggi, populista è usato in senso dispregiativo. Secondo il Grande dizionario dell’uso di Tullio De Mauro, indica un “atteggiamento politico di esaltazione velleitaria e demagogica dei ceti più poveri”. Non a caso né i 5s né la Lega si sono mai autodefiniti populisti. Definizione cucitagli addosso dai loro avversari o comunque da chi vuole attaccarli e indebolirli. Il termine si è imposto in Italia quando le elezioni politiche del 2018 (che registrarono l’affluenza più bassa nella storia repubblicana) consegnarono al paese un Parlamento dove Lega e 5s, le forze destinate a cavalcare e rappresentare il populismo, insieme raggiungevano un’ampia maggioranza assoluta. Insomma, nessuno dei due blocchi tradizionali della politica italiana, centrodestra e centrosinistra, sarebbe stato in grado di fare un governo. I 5s, il partito del “visionario” Casaleggio e del comico Beppe Grillo, era forte alla Camera di 225 seggi con oltre il 32%. Il partito di Salvini si era fermato a 123 diventando il più forte partito del centrodestra, coalizione che comunque non aveva la maggioranza. Insieme, 5s e Lega avevano alla Camera una maggioranza schiacciante di 348 seggi su 630. Mattarella si trovò a fronteggiare una situazione drammatica. O prendere atto dell’impossibilità di fare un qualunque governo rispedendo gli italiani al voto, con tutti i guasti che questa scelta avrebbe provocato; o promuovere un governo dei vincitori per il quale la Lega di Salvini (mollando i suoi alleati storici col retropensiero di impadronirsi del patrimonio elettorale del Cavaliere ormai al tramonto), apparve immediatamente disponibile. Entusiasti, quasi e forse più della Lega, i 5s.Conte emerse dall’anonimato, quindi, perché nessuno dei due leader dei partiti populisti (Di Maio e Salvini) avrebbe concesso all’altro la carica di Presidente del Consiglio. Conte (che non mise mai bocca nelle decisioni del ministro dell’Interno Salvini), lo cacciò poi dal governo solo quando ebbe la certezza che Salvini volesse cacciare lui e capì di poter sostituire il leader leghista col Pd. L’operazione gestita con maestria movimentista e spregiudicata venne diretta dall’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi (allora Pd) che portata a termine l’operazione uscì dal Pd. Del resto, sempre di più sia Salvini che Di Maio avevano continuato ad alimentare le proprie strategie populiste convinti entrambi di far crescere i propri consensi e di poter trionfare, da soli, il giro successivo. Il Covid bruciò i sogni di entrambi. Conte, sballato Salvini dal governo e immaginando di essersi rafforzato, faceva confusione come presidente del Consiglio dirigendo un governo opposto a quello che aveva diretto in precedenza. Intanto Salvini occhieggiava con tutti i malumori che, anche grazie al Covid, iniziarono a crescere nel paese. Quando successivamente Renzi ritirò la delegazione del suo partito dal governo, aprendo di fatto la crisi, Mattarella, incaricato il 5s Fico, presidente della Camera, di esplorare la situazione, fu costretto a prendere atto che tutti i ponti tra 5s e Pd e tra 5s e Lega erano ormai consumati. Tutti immaginavano lo scioglimento delle Camere (il Covid sempre a infuriare) ma Mattarella, convinto dell’impossibilità del voto proprio per il pericolo di far crescere il Covid, ma anche per l’urgenza di metter fine alla confusione, diede l’incarico di formare il governo a Mario Draghi. Con quest’ingresso la partita della politica italiana si modificò profondamente. Trucchi, furbizie e rinvii sparirono all’improvviso. Draghi chiese a tutti i partiti in parlamento di entrare nel governo. Rinunciò a farne parte soltanto Giorgia Meloni che, partita da irrilevante 4 e rotti per cento del 2018, era ormai in competizione con Salvini (in arretramento) per diventare il partito più pesante dell’area di centrodestra. Né è una forzatura pensare che la stessa Meloni non spinse per entrare nel governo per favorire Draghi (con cui ha mantenuto un ottimo ed equilibrato rapporto) date le sue posizioni antieuropeiste e gli antenati politici ritenuti (a ragione o a torto) ancora imbarazzanti. Problema: l’arrivo di Draghi ha accentuato il carattere populista dei partiti populisti? È evidente che è accaduto. Forse era inevitabile. Draghi ha spinto più in alto l’impegno politico ed ha quindi accentuato le spinte populiste alla ricerca di consenso tra le fasce meno evolute politicamente e meno attrezzate culturalmente nel paese. Si tenga conto che i 5s, ad ognuno dei passaggi che abbiamo ripercorso, hanno perso peso con un ritmo sempre più imbarazzante. Inevitabile perché i 5s per definizione sono un partito che ha puntato ad annullare la politica. Se uno vale uno, ed è questo il convincimento vero che ha consentito la molla del 32% nel 2018, non c’è bisogno di alcun partito e di alcun politico. Il M5s è il solo partito della storia d’Italia nato consapevolmente col lucido obiettivo di evaporarsi senza lasciar traccia. A seguire la logica dei 5s la propria scomparsa sarebbe il segno del proprio trionfo. Ma quando ha iniziato a indietreggiare, essendo ormai finita la chiacchiera dell’uno vale uno, sostituita dai vantaggi del seggio parlamentare per la totalità dei quasi sconosciuti rappresentanti eletti tra i 5s, sono nate nuove dottrine. I 5s si sono sempre più spaccati tra una fascia che s’è interamente allontanata dalle teorie iniziali del Movimento, che avrebbe poi rappresentato Di Maio fino alla scissione, e un’altra che apparentemente segue le vecchie teorie ma che si guarda attorno con attenzione e non ha ancora deciso se restare sotto la guida di Conte o se richiamare in servizio il rumoroso e fantasioso Di Battista. Il guaio per il paese è che sia la Lega di Salvini, ormai ampiamente surclassata da FdI della Meloni, che l’ormai 5s di Conte si sono radicalizzati nella propria parte. Salvini è convinto che alla fine, anche grazie a Berlusconi, e piegando la parte più moderata di Fi, potrebbe riacciuffare la supremazia nel centrodestra. Tiene conto che la Meloni continua ad avere una difficoltà d’immagine e ad ogni buona occasione punta a metterla in difficoltà. Il punto più alto di questa strategia s’è giocato durante l’elezione del presidente della Repubblica con l’emarginazione della alleata/avversaria. Intanto Salvini rilancia tutti i punti politici delle vecchie impostazioni leghiste: dal regionalismo differenziato (preteso dai presidenti di Regione del Nord, e non solo del nord) alle spinte per favorire i padroncini della vecchia area leghista. P er non dire delle pulsioni internazionali che lo hanno imbarazzato e indebolito per la sua storica vicinanza al putinismo e a Putin, che in passato, quando girava indossando le magliette col volto del dittatore russo, avrebbe volentieri barattato offrendo in cambio almeno due Mattarella. Ancora più in crisi il populismo necessario a Conte per giustificare la sua presenza nella politica italiana. La sua situazione s’è aggravata dopo la scissione dai 5s di Di Maio, che del Movimento fu a lungo il maggior leader e interprete. Conte in questo momento appare privo di strategia politica specie dopo il raffreddamento del Pd nei suoi conformi. Una difficoltà di rapporto che potrebbe perfino far restare i 5s senza rappresentanza se le cose dovessero ancor di più aggrovigliarsi senza arrivare al 2023 per le elezioni (possibilità comunque abbastanza difficile perché i 5s scissionisti o no temono le prossime elezioni).