Vedere “La grande ambizione” è un obbligo. Lo è per un parlamentare, per un leader politico come per un giornalista. Il film su Berlinguer non può essere ignorato innanzitutto per la bellezza dell’interpretazione di Elio Germano. Commovente nel suo sforzo di restituire la tensione di Enrico verso un obiettivo difficilissimo, così difficile che a inizio film rischia di essere assassinato dai servizi segreti bulgari. Enrico Berlinguer, il grande leader comunista, una delle più straordinarie figure della storia italiana del Novecento, guarda a un incontro fra le grandi forze e culture popolari del Paese: fra il Partito comunista e i cattolici. Il compromesso storico non era né ripiego né inciucio: Berlinguer vi aveva colto la coerenza con un’autentica aspirazione dell’Italia al progresso nella concordia, alla pacificazione necessaria dopo la tragedia della seconda guerra mondiale e le lacerazioni della guerra fredda. Era la risposta alle spinte sanguinarie, terroristiche, e criminali che provenivano dalle profondità oscure del Paese, dall’eversione nera e non solo. Il compromesso storico era l’antidoto alle pulsioni che muovevano per impedire quella pacificazione.

È chiaro che a quarantotto anni di distanza dal discorso con cui Berlinguer ebbe il coraggio di presentarsi al congresso del Pcus, consapevole che il suo sarebbe stato, come racconta il film, l’intervento meno applaudito, noi non abbiamo un’Italia lacerata come allora. Certo che la politica italiana resta conflittuale, ma non c’è il peso di una tragedia come quella di una guerra mondiale ancora troppo vicina, né l’angoscia per il contrasto unico al mondo vissuto, nel pieno della guerra fredda, da un Paese “di frontiera”, tra Est e Ovest, qual era l’Italia. Negli anni Settanta la politica di Berlinguer era anche la politica di Gladio e dei finanziamenti che, pur con sempre minore generosità, Mosca assicurava al Pci. Gli anni Venti del ventunesimo secolo vedono una leader di destra, Giorgia Meloni, e una leader di sinistra, Elly Schlein affrontarsi, sì, ma entro i limiti della civiltà democratica e soprattutto delle garanzie costituzionali. Eppure. Eppure il conflitto resta. L’anomalia italiana resta. Lo strascico di Mani pulite e del ventennio berlusconiano restano. Potrà sembrare esagerato, ma la frattura che l’Italia divisa e incendiata degli anni Settanta ha trasferito nel nostro tempo viene proprio dalla questione giudiziaria. Dalla fine dei partiti decretata con tangentopoli. Dall’alterarsi dell’equilibrio fra i poteri dello Stato. Fra la politica e la magistratura. L’eredità negativa della seconda Repubblica propriamente detta è in una maggioranza di centrodestra che continua a praticare la guerra fredda con le toghe senza con questo rimediare allo squilibrio fra i poteri, e in un’opposizione di centrosinistra, nel Pd innanzitutto, che continua a giocare di sponda con le Procure, nell’illusione di preservarsi come custode di una superiorità morale.

È chiaro che Meloni può continuare a governare. Com’è chiaro che la democrazia dell’alternanza oggi non è, in astratto, né compromessa né inquinata. È chiaro pure che la contrapposizione fra un centrodestra egemonizzato dalla destra di Fratelli d’Italia e un centrosinistra

nascosto dietro la presunta superiorità giudiziaria lasciano l’Italia stretta in una polarizzazione. Ed è chiaro che l’equilibrio, così com’è, è instabile. Così, a cinquant’anni di distanza, la suggestione berlingueriana riemerge. Vive come un fiume carsico che attraversa la storia e solo apparentemente scompare.

Ma come potrebbe realizzarsi, oggi, la grande ambizione di Enrico? È una domanda ingenua e maliziosa allo stesso tempo.

Ingenua perché il chiacchiericcio politico degli ultimi mesi suggerisce una risposta scontata: il compromesso storico che s’insinua lentamente nella consapevolezza del sistema politico è in un futuro incontro fra il Partito democratico e Forza Italia. In un progressivo sganciarsi del movimento post berlusconiano dalla destra di FdI e Lega, e in una navigazione in mare aperto lungo la rotta dell’ispirazione liberal popolare. Con un’enfasi sempre meno timida sulla parte “liberal” dell’aggettivo. Vuol dire, per esempio, che il partito di Antonio Tajani difficilmente potrà soffocare le sollecitazioni provenienti da Marina Berlusconi in materia di diritti civili, né potrà rinnegare all’infinito i gli slanci sullo Ius scholae o per un’effettiva umanità delle carceri.

Ma la risposta è maliziosa perché, naturalmente, l’evoluzione culturale degli azzurri non può automaticamente implicare un incontro col Pd. Non coincide, certo, in modo naturale con un esito di quel genere. E soprattutto, è tutt’altro che scontato che il Partito democratico, a propria volta, accetti di risolvere per sempre l’equivoco, identitario e bipolarista, con cui è nato, attraverso l’incontro con una forza non progressista ma moderata. Non è scontato né naturale. Ed è anzi una prospettiva che suscita persino ilarità, oggi, alle soglie del dicembre 2024.

Ma c’è una domanda tutt’altro che maliziosa, capace di smontare quello scetticismo: come può mai pensare, il Pd, di tornare a essere maggioranza di governo finché la sola possibile coalizione resterà quella col Movimento 5 Stelle, e finché si dovrà dunque fare i conti con un contrafforte centrista debolissimo qual è oggi quello di Azione? E se pure l’Italia viva di Matteo Renzi ritrovasse vigore, davvero si può credere che una coalizione con Renzi e quel che resterà del Movimento 5 Stelle possa costituire una vera e forte prospettiva di governo?

Ma certo, pensare oggi che Berlinguer, la sua Grande ambizione, diventino la stella polare di Tajani e Schlein, fa sorridere. Forse non accadrà. Forse resterà un gioco malizioso, impertinente e fine a se stesso. A meno che le alternative, quelle attuali e quelle future, non si rivelino così insopportabili da rendere preferibile ciò che oggi, agli occhi della politica italiana, sembra destinato a non potersi mai realizzare...