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IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO GIORGIA MELONI
Se la previsione sia fondata lo si capirà solo col tempo, però è un fatto che l'ipotesi di votare nel 2026 sia passata nell'arco di poche settimane da miraggio a eventualità concreta. Nell'opposizione, soprattutto nel Pd, l'ipotesi è considerata se non certa almeno molto probabile. Nella maggioranza negare ogni rischio di voto anticipato è obbligo di scuderia e infatti lo negano tutti ma senza più la convinzione sincera che si percepiva prima delle elezioni europee. Il posizionamento di Renzi, la sua improvvisa svolta, è considerato da molti un significativo indizio.
Quanto a fiuto e lucidità politica l'ex premier non teme rivali sul palcoscenico della politica italiana. Ma perché mai le urne dovrebbero aprirsi in anticipo quando i sondaggi registrano un consenso non in flessione ma complessivamente in crescita del centrodestra e in particolare del partito di maggioranza relativa, con i fondamentali economici che nel complesso sono decisamente positivi ed equilibri tra le forze di maggioranza che non sembrano consentire a nessuno colpi di testa? Le ragioni che supportano la previsione di voto anticipato sono di diversa natura ma quella fondamentale attiene ai quattrini, o più precisamente a una spaventosa penuria dei medesimi.
Nel 2024 il governo Meloni non avrà un soldo da spendere e si tratta di un problema enorme da più punti di vista: non avere un soldo vuol dire rischiare un calo rapido e vertiginoso di consensi ma vuol dire anche non disporre dello strumento principe che garantisce la tenuta delle maggioranza. Nulla è più divisivo di una coperta troppo corta. Giorgetti farà l'impossibile per confermare almeno il taglio del cuneo fiscale, il fiore all'occhiello del governo, e probabilmente in qualche modo ci riuscirà. Però non potrà andare molto oltre. I guai inizieranno l'anno prossimo perché non si tratterà più solo di governare con la borsa vuota ma anche di dover sborsare parecchio. Quanto, in che tempi, con quale rigidità è impossibile dirlo oggi.
Dipenderà dalle trattative sulla procedura d'infrazione e sul Piano di rientro a medio termine con una nuova Commissione europea che ancora non esiste. I presagi però non autorizzano ottimismo. Il piano d'azione della premier, tutt'altro che segreto e anzi più volte apertamente confessato, era concordare il rientro con una Commissione spostata a destra, magari nata proprio con voto essenziale di una parte della destra, dunque molto meglio disposta di quella precedente che già non era affatto ostile. Si sa che le cose sono andate in senso diametralmente opposto. La nuova maggioranza europea, la vecchia “Ursula” allargata ai Verdi, non cercherà di affossare l'Italia perché non sarebbe nell'interesse di nessuno ma potrebbe non muovere un dito per rendere il percorso di rientro meno pesante per un governo di destra che intende invece mettere il più possibile in difficoltà. Quanto sia sconsigliabile arrivare alle urne dopo un biennio di lacrime e sangue, non solo di austerità, è evidente. I soldi, si sa, non sono tutto.
Ci sono anche le elezioni e in agenda se ne contano molte, forse troppe. Le Regionali sono diventate per governo e maggioranza un mezzo incubo. Quelle in calendario quest'anno, Liguria, Piemonte e Umbria rischiano di risolversi in un cappotto. L'anno prossimo la situazione non è molto più rosea tanto che, stando alle voci imperversanti nel Palazzo, l'ipotesi di un rinvio dall'autunno 2025 alla primavera 2026 è concreta.
Di certo allo studio del Viminale. Imboccare il percorso in discesa vorrebbe dire aumentare il rischio, già elevato, di una sconfitta nel referendum sull'Autonomia. Raggiungere il quorum è difficile, non impossibile. In un clima di mobilitazione generale galvanizzata dal successo nelle prossime regionali lo diventerebbe ancora di più. Ma il problema, sull'Autonomia, è multiplo. In tutta evidenza Fi in parte supporterebbe la riforma di Calderoli molto tiepidamente, in parte, vedi alla voce Occhiuto, la contrasterebbe anche apertamente.
Non bisogna dimenticare che la Lega ha accettato, piuttosto a malincuore, di ingoiare il premierato di Giorgia, che indebolisce soprattutto i partiti alleati di quello che esprime il premier, solo per portare a casa l'autonomia differenziata. Se l'autonomia venisse affossata, magari con la più o meno rumorosa complicità di una forza della maggioranza, la ricaduta sull'altro referendum quello sul premierato, sarebbe inevitabile e già così è a forte rischio. Una sconfitta in quel referendum non sarebbe la fine del governo ma di Giorgia Meloni e, checché ne debba dire in pubblico, è probabile che lo sappia meglio di chiunque altro.
Tutto ciò non significa che le elezioni nel 2026 siano certe, forse neppure probabili. Ma quello che due mesi fa era una scenario da fantapolitica è oggi una possibilità reale che i partiti sia di maggioranza che d'opposizione considerano, valutano e con la quale in qualche modo già si misurano.