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Nel circolo vizioso di aggressioni e rappresaglie tra rossi e neri che costellarono gli anni ‘ 70 - quelli che con notevole incoscienza una parte della stampa cerca oggi di resuscitare evocando quelli che allora si chiamavano “opposti estremismi” - di episodi efferati e tragici se ne contarono a decine da entrambe le parti. Alcuni però furono e restano ancora oggi più impressionanti, più orridi degli altri, anche se non più tragici. Fu il caso dell’uccisione di Sergio Ramelli, 19 anni, dirigente di medio calibro del Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del Msi. La sera del 13 marzo 1975 fu aggredito da un gruppo di militanti di Avanguardia operaia mentre tornava a casa. Usarono chiavi inglesi Hazel 36, un’ “arma impropria” molto usata a Milano, e in nessuna altra parte d’Italia, prima dai militanti del Movimento studentesco della Statale, poi anche da Avanguardia operaia.
L’agonia di Ramelli fu lunghissima. Resistette 48 giorni in ospedale e quel lento stillicidio fu uno degli elementi che rese quella vicenda per certi versi più feroce delle tante altre che si ripetevano in quei mesi un po’ ovunque ma soprattutto a Roma e Milano. Un altro fu la inconcepibile reazione di una parte del consiglio comunale di Milano che alla notizia dell’aggressione, mentre nell’aula si sfiorava la rissa appludì spudoratamente. Il terzo elemento anomalo furono le modalità dell’attacco. I picchiatori non conoscevano Ramelli. Gli era stato indicato dagli ex compagni di scuola in modo che nessuno potesse sospettare di loro: “gli idraulici” agirono in un certo senso su commissione. Erano chiamati così proprio per l’abitudine di adoperare le Hazel 36, 40 cm di lunghezza, pesantissime. Entravano in ballo spesso, nei giorni dell’antifascismo militante. Tra il 1972 e il 1977 furono adoperate in 140 aggressioni, non poche finite con lesioni gravi. Ramelli era a sua volta un fascista anomalo, almeno nell’aspetto. Non si uniformava al tipico look nero dell’epoca, dettato dai “sanbabilini”, i duri che stazionavano in piazza San Babila e che giravano già nella prima metà del decennio con la pistola in tasca. Portava i capelli lunghi, a prima vista lo si sarebbe detto “un compagno”. Studiava chimica industriale al “Molinari”, una scuola rossa, e se era certamente neofascista non era però un picchiatore. Quella era però la stagione d’oro dei servizi d’ordine e dell’antifascismo militante, arrivata alla fine del grande ciclo di lotte operaie 1969- 73, nel quale l’antifascismo era stato in realtà periferico, e precedente alla fase finale quando la parola sarebbe passata direttamente alle armi da fuoco, spesso impugnate dagli stessi ragazzi che si erano fatti le ossa nei servizi d’ordine.
La campagna per rendere “inagibili” scuole, università e posti di lavoro per i neofascisti era in pieno svolgimento, Ramelli fu individuato, denunciato come fascista con un manifesto appeso nella scuola, poi aggredito persino in classe. Il caso- Ramelli diventò una specie di emergenza nella scuola, con tanto di assemblee affollate chiamate a decidere. Alla fine Ramelli cambiò scuola. Non fu dimenticato.
Furono proprio alcuni studenti del “Molinari” aderenti ad Avanguardia operaia a chiedere al servizio d’ordine di fare il lavoro sporco, in modo che loro non potessero essere individuati. La squadra era composta da 8 persone più una staffetta, una ragazza. A colpire però furono solo in due, uno dei quali però spiegò al processo di non aver usato la Hazel 36: «La mia era una Beta 35, più corta di tre cm e più leggera». Non volevano uccidere, gli era solo sfuggita la mano. «Fu un tragico errore» avrebbe commentato anni più tardi, minimizzando il fattaccio, Mario Capanna, leader di quel Movimento studentesco che a Milano aveva inaugurato la politica della spranga, soprattutto in funzione antifascista ma senza sdegnare qualche sonora legnata ai militanti della sinistra extraparlamentare, sventolando il manifesto di Peppone Stalin.
Ramelli morì il 29 aprile. Tra l’aggressione e la fine c’era stata l’uccisione di Claudio Varalli, ammazzato con un colpo di pistola da un militante di Avanguardia nazionale. Il fascista era stato attaccato da un gruppo dell’Mls, erede del Movimento della Statale, nel quadro della stessa mobilitazione antifascista di cui era stato vittima Ramelli. Aveva risposto sparando. Il giorno dopo, nel corso della manifestazione di protesta e dei puntuali scontri che la accompagnarono, una camionetta della polizia aveva investito e ucciso un altro militante di sinistra, Giannino Zibecchi. La situazione era incandescente. Ai funerali di Ramelli fu proibita qualsiasi manifestazione politica.
I colpevoli furono individuati e poi condannati per omicidio ma ( giustamente) senza premeditazione solo dieci anni dopo, grazie alla deposizione di un pentito. Nel frattempo erano diventati tutti professionisti affermati, per lo più medici. Il magistrato che gestiva l’inchiesta, Guido Salvini, pur essendo di sinistra fu accusato di voler processare il Movimento degli anni ‘ 70 e in particolare Democrazia proletaria, dove erano finiti molti dei dirigenti di Ao dei tempi della Hazel 36. Alla cecità dettata dall’ideologia spesso non c’è limite.