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Estate 1994: tra i villeggianti che affollano le strade di una delle tante località balneari della Sardegna c’è un volto universalmente noto. Tutti lo riconoscono e lui, del resto, non cerca affatto di passare inosservato: abbronzatura da playboy anni ‘ 60, bandana colorata intorno al cranio, sorrisone malandrino. Uno dei tanti che si fermano a rimirarlo lo apostrofa strillando «Non mollare» e lui replica senza farsi pregare: «Certo che no. Gli facciamo un culo così!». L’unico giornalista presente sbigottisce e corre a scrivere. Non capita spesso e certo non sta bene che un presidente del consiglio minacci con formula tanto cruda di fare il mazzo agli avversari. Il giorno dopo, l’ultima di Silvio Berlusconi, presidente del consiglio eletto appena cinque mesi prima, campeggia su tutti i giornali del Paese. E conferma nella loro già salda opinione chi frequenta i salotti buoni ma anche chi siede ai vertici delle istituzioni: l’ "uomo nuovo" è un intruso del quale prima ci si libera e meglio è.
Ventitré anni dopo la sceneggiatura sembra riproporsi, stavolta in versione kolossal, sull’altra sponda dell’Atlantico. Le somiglianze tra il Cavaliere di allora e il Don di oggi sono innumerevoli, sin nei particolari. Chissà se qualcuno, guardano quelle centinaia di migliaia di donne e uomini sfilare a Washington in una sorta di ' protesta preventiva', si sarà ricordato del milione di persone che il 25 aprile 1994, a Milano, fecero la stessa cosa meno di un mese dopo la vittoria di don Silvio? E chissà quanti, di fronte al sessismo sfacciato del nuovo presidente, avranno ricordato il brivido con cui venne accolta la battutaccia del suo predecessore: «Nessuno può dire che io non apprezzi le donne. Le apprezzo moltissimo: soprattutto in certi momenti».
Come il Cavaliere, ' the Donald' è un senza partito. L’italiano aveva provveduto con una formazione fai- da- te. L’americano ha occupato d’impeto un Great Old Party che non lo sopportava e non lo sopporta. Plutocrati, i due nascono alla politica con il marchio indelebile del possibile conflitto d’interessi. Comodamente allocati nelle fasce altissime della piramide sociale, sono arrivati al potere facendo appello alla disagiata base della medesima, in nome di un rapporto non mediato dal partito e anzi quanto più diretto possibile. Persino il ricorso al nazionalismo presenta eloquenti punti di contatto. Certo lo sciovinismo degli italiani, ancora vaccinati dalle iperboliche sparate del ventennio, di solito non va oltre la tifoseria allo stadio. E infatti Berlusconi, consapevole della tendenza diffusa, proprio su calcio e sport in generale aveva fatto leva, battezzando il suo partito con lo slogan più gridato dagli spalti ed assicurando alla sua truppa il colore azzurro della Nazionale. Non era ' America First', che da noi sarebbe stato ridicolo, ma titillava le medesime corde, sia pure in scala.
Volendo, persino sul fronte delle controriforme un qualche accostamento non sarebbe illecito. Trump è partito lancia in resta contro una riforma del suo predecessore, ottima pur se di portata limitata rispetto alle ambizioni iniziali, l’Obamacare. Berlusconi finì quasi sfracellato nel tentativo di intervenire su un fronte, quello delle pensioni, che era già stato riformato, in peggio ma con danno ancora limitato, giusto due anni prima, dal governo di Giuliano Amato. Non sarebbe la prima volta che l’Italia, per motivi imperscrutabili, si rivela uno dei principali laboratori politici nel mondo. Dall’esperienza pionieristica di Silvio Berlusconi, l’allievo di Washington dovrebbe imparare qualcosa, ma forse la lezione sarebbe ancora più preziosa per i suoi avversari. Il caso Berlusconi dimostrò quanto micidiale possa essere, per i politici che oggi va di moda definire "populisti", il blocco composto dalla protesta sociale da un lato e dalla resistenza dell’establishment di potere dall’altro: una tenaglia dalla quale il Cavaliere finì quasi stritolato. Quel milione di persone che sfilarono sotto il diluvio a Milano il 25 aprile non avevano alcuna simpatia per le élites che sdegnavano il parvenu di Arcore, e ne erano poco cordialmente ricambiate. Le due aree sociali si cementarono tuttavia in nome di un comune e transitorio interesse: mettere al più presso alla porta l’usurpatore. E’ successo a Roma, nulla vieta che succeda a Washington.
E tuttavia la campagna contro l’ "usurpatore" condotta in nome delle buone maniere politiche, del politically correct e del bon ton più antropologico che politico, la stessa che martellò sin dal primo momento il Cavaliere e che sferza oggi il Don, si è rivelata alla resa dei conti disastrosa. Disarcionato con quel ribaltone del ‘ 94, Berlusconi è tuttavia rimasto in campo altri 17 anni, per buona parte dei quali governando il Paese. L’alterigia sprezzante, venata di una implicita componente di classe, che bersaglia oggi il burino della Casa Bianca ricorda da vicino l’incredulità offesa con cui tanti, il giorno dopo la vittoria dell’arricchito lombardo, confessavano candidi di non riconoscere più i loro concittadini. Come avevano osato, i buzzurri ignorantoni? E in fondo, sempre rispettando la scala, anche la platea elettorale non è poi così diversa. La candidata comme il faut ha stravinto a New York e in California, un po’ come la sinistra che in Italia è ormai ben radicata dalle parti dei Parioli. Il bruto ha prevalso, magari di misura ma inequivocabilmente, dove pesa il voto dei cafoni redneck, fratelli nell’animo di quei borgatari italiani che ormai un voto per la sinistra non lo concedono nemmeno con una pistola alla tempia. Perché nulla più di quell’atteggiamento altero e gonfio di malintesa superiorità convince i dimenticati che fanno benissimo a votare chi dalla loro controparte sociale è tanto disprezzato.