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Come con Gianfranco Fini due legislature fa, quando l’allora presidente della Camera cannoneggiava contro l’ultimo governo di Silvio Berlusconi, dove pur sedevano suoi ministri, così con Roberto Fico pro- immigrati qualcuno fra quelli che lo elessero al vertice di Montecitorio due mesi fa lo avrà applaudito ma altri, sotto le cinque stelle ma o soprattutto sul Carroccio, avranno gridato al tradimento. E rimpianto i tempi, se vi sono mai stati, dei presidenti delle Camere neutrali o addirittura taciturni, decisi con il loro silenzio, magari assai sofferto, a non creare problemi alla maggioranza di appartenenza, e relativo governo.
Ma vi sono mai stati, appunto, quei tempi di ossequioso allineamento, o di eroica resistenza alla umanissima tentazione della dialettica in senso lato, se non vogliamo parlare dell’abusatissimo dibattito politico, pronunciato dai più infervorati con la doppia bi? No. Quei tempi non vi sono mai stati in Parlamento: né alla Camera né al Senato, dove cominciò anzi la tradizione dei presidenti dissidenti rispetto agli schieramenti di provenienza e/ o di elezione.
Già forte della sua qualifica di “indipendente” nelle liste elettorali della Dc, che lo avevano portato nel 1948 al Senato dopo un’apprezzata collaborazione con Alcide De Gasperi come ministro, Cesare Merzagora creò problemi a un po’ tutti nei 14 anni ininterrotti di presidenza a Palazzo Madama, dal 1953 al 1967. Durante i quali gli capitò anche la più lunga supplenza al vertice dello Stato, quando sostituì per quasi un semestre il presidente della Repubblica Antonio Segni, impedito nel 1964 da un ictus rivelatosi poi irrimediabile.
Nel 1960, con la Dc spiazzata, sotto la guida di Aldo Moro, dal governo interamente democristiano di Ferdinando Tambroni, nato per guadagnarsi un’astensione dei socialisti anticipatrice del centrosinistra ma ritrovatosi invece con l’appoggio determinante della destra missina, e successivi moti sanguinosi di piazza, si alzò alta e forte la protesta di Merzagora. Che reclamò il ritorno delle forze dell’ordine nelle caserme.
Anche nella torrida estate del 1964, quella del già ricordato ictus di Segni, il presidente del Senato si trovò inconsapevolmente coinvolto nelle voci che lo accreditavano, in alternativa con Mario Scelba, alla guida di un governo di transizione verso elezioni anticipate ma non troppo, per succedere a quello di centrosinistra di Moro, caduto per una votazione parlamentare a scrutinio segreto sui finanziamenti alla scuola privata.
Moro invece, a dispetto del piano di emergenza “Solo” attribuito al comandante generale dell’Arma dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo, già capo dei servizi segreti, fu confermato e rimase a Palazzo Chigi sino all’esaurimento della legislatura, nella primavera del 1968. Ma nell’autunno del 1967 Merzagora colse l’occasione di un convegno per pronunciare un discorso contro il sistema secondo lui già degenerato dei partiti pur democratici. I comunisti, che pur erano all’opposizione e avrebbero potuto avvantaggiarsi in qualche modo di quell’intervento, non gliela perdonarono. E protestarono così forte da reclamarne e ottenerne le dimissioni, che consentirono tuttavia a Merzagora di rimanere al Senato sino alla morte, nel 1991, avendo ottenuto il laticlavio nel 1963 da Segni.
Un’altra lunga presidenza al Senato, sia pure con qualche interruzione, fu quella di Amintore Fanfani, arrivatovi nel 1968 per scalare meglio il Quirinale dopo tre anni, alla scadenza del mandato di Giuseppe Saragat. Ma egli mancò l’obbiettivo perché fu eletto Giovanni Leone, che in compenso lo nominò senatore a vita.
Di Fanfani non si può proprio dire che sia mai stato un presidente neutrale del Senato: efficiente di sicuro, con i suoi metodi spesso anche sbrigativi di decidere e sciogliere nodi, ma neutrale no, almeno per le vicende interne al suo partito, la Dc. Un cui congresso nazionale, nel 1973, egli vanificò alla immediata vigilia promuovendo nella residenza ufficiale del presidente del Senato, a Palazzo Giustiniani, una riunione dei capicorrente per prenotare per sé la vicinissima Piazza del Gesù, sede storica della segreteria del suo partito, dove dal 1969 regnava il suo ormai ex delfino Arnaldo Forlani, e per Mariano Rumor l’altrettanto vicino Palazzo Chigi, dove sedeva Giulio Andreotti. Fu così chiusa definitivamente la parentesi centrista riaperta nel 1972.
Una volta che, estimatore e amico dichiarato di Forlani, gli contestai quel passaggio sul terrazzo di casa sua, in via Platone, alle pendici di Monte Mario, Fanfani mi guardò strabuzzando gli occhi, come se fossi un marziano. Ma mi regalò lo stesso l’acquerello bellissimo di una Madonna, perfezionato alla mia presenza, che conservo gelosamente, e davanti al quale ogni tanto prego anche per lui. Era, l’aretino, un uomo decisamente formidabile, nei pregi e nei difetti.
Proprio da presidente del Senato, nella terribile primavera del 1978, Fanfani fu l’unica sponda istituzionale che trovarono Aldo Moro, nel tentativo di salvarsi dalle brigate rosse che lo avevano sequestrato, e il presidente della Repubblica Giovanni Leone nel tentativo di graziare uno dei tredici “prigionieri” con i quali i terroristi avevano chiesto di scambiare l’ostaggio. Ma il provvedimento di clemenza fu vanificato dalla decisione dei brigatisti di anticiparlo ammazzando Moro di prima mattina nel giorno decisivo della riunione della direzione democristiana, dove Fanfani appunto avrebbe dovuto supportare politicamente la scelta autonoma del capo dello Stato.
Quanto lunghe furono le presidenze al Senato di Merzagora e di Fanfani, tanto breve fu, per la durata stessa della legislatura che lo gratificò, quella di Carlo Scognamiglio Pasini, il liberale eletto nel 1994 nelle liste berlusconiane dell’esordiente Forza Italia. E prevalso per un voto al vertice di Palazzo Madama sull’uscente e pallido Giovanni Spadolini.
Ebbene, dopo soli quattro mesi dall’insediamento a Palazzo Chigi il troppo ottimista Silvio Berlusconi era già alle prese con le impuntature dell’alleato Umberto Bossi, incoraggiato al Quirinale da Oscar Luigi Scalfaro a rompere la coalizione di centrodestra e provocare la crisi. Alla cui so- luzione, per un governo di transizione verso elezioni anticipate, il presidente emerito Francesco Cossiga propose a Scalfaro, d’intesa - si vociferò - con l’interessato, proprio il nome di Scognamiglio per darle un carattere “istituzionale”. Ma Berlusconi, sorpreso e infastidito, preferì spendersi per la successione a favore del “suo” ministro del Tesoro Lamberto Dini, cui tuttavia finì per non dare la fiducia, accordata invece dal Pds- ex Pci e dal Ppi- ex Dc. Scognamiglio avrebbe poi lasciato ugualmente il centrodestra da ex presidente del Senato, nella nuova legislatura, per entrare nel 1998 con un partito improvvisato da Cossiga, sempre lui, come ministro della Difesa nel governo di Massimo D’Alema, succeduto al primo di Romano Prodi.
Se al Senato aveva voluto Scognamiglio, anche a costo di detronizzare Spadolini, al quale poi offrì la presidenza della Mondadori, nel 1994 Berlusconi volle alla presidenza della Camera la giovanissima leghista Irene Pivetti. Che era partita obiettivamente svantaggiata dall’inevitabile confronto con la donna che l’aveva preceduta di qualche anno in quella postazione: l’austera e per niente improvvisata Nilde Jotti. Che nel 1985 aveva gelato con un semplice sguardo, in una riunione della direzione comunista, il severo Enrico Berlinguer, imprudentemente avventuratosi in una critica ai limiti da lei imposti all’ostruzionismo praticato dal Pci nella conversione in legge del decreto del governo di Bettino Craxi sui tagli anti- inflazione alla scala mobile dei salari.
La Pivetti esordì contestando un po’ ridicolmente l’abitudine di dare dell’” onorevole” agli eletti dal popolo, e precedendo l’insofferenza di Bossi verso l’esordiente presidente del Consiglio nell’aula di Montecitorio. Dove la signora gli contestò di essere arrivato, per il discorso programmatico, con un sia pur leggero ritardo. “Alla Scala non sarebbe permesso”, lo bacchettò la Pivetti.
Tornato in maggioranza nel 2001 con la Lega, dalla quale nel frattempo la Pivetti era uscita, e anche in malo modo, Berlusconi volle e insediò alla presidenza della Camera l’alleato Pier Ferdinando Casini, “pierferdi” per gli amici stretti e “pierfurbi” per gli amici larghi. Tanto furbo, il puledro allevato nella Dc da Toni Bisaglia prima e da Forlani poi, da non farsi mai condizionare da Berlusconi più di tanto in quella lunga legislatura. E da infliggergli, sia pure per un solo quadrimestre, tra dicembre 2004 e aprile 2005, la pena di una difficile convivenza al governo con Marco Follini come vice presidente del Consiglio. Che uscì dal centrodestra e dal comune partito ben prima di Casini, approdando in compenso nel Pd o nelle sue liste prima di lui, che nel frattempo ne era uscito mescolando delusione e disincanto, in uno stile inconfondibilmente democristiano. Com’è, del resto, anche quello di Pierferdi, o Pierfurbi.
Tornato brevemente all’opposizione nel 2006, quando alla presidenza della Camera il centrosinistra volle e insediò Fausto Bertinotti, implacabile nel prevedere la fine rapida anche del secon- do governo Prodi resistendo al silenzio suggeritogli dagli amici per il suo ruolo istituzionale, Berlusconi preparò la rivincita del 2008 nei minimi dettagli. Fra i quale c’era la promozione di Giancarlo Fini, già suo ministro degli esteri, a presidente della Camera. Peggio, francamente, non poteva andare per il Cavaliere quella scelta. Pur unito nello stesso partito, il Pdl, qualche mese dopo l’elezione al vertice di Montecitorio Fini già sorprese Berlusconi mandando un messaggio di compiacimento al segretario del Pd Walter Veltroni per un raduno antigovernativo al Circo Massimo. Alle critiche mossegli dai berlusconiani il presidente di Montecitorio rispose di essersi complimentato col capo dell’opposizione solo per l’ordine che aveva saputo garantire alla città di Roma con un evento pur così partecipato, dimenticando che a compiacersene sotto questo profilo sarebbe forse bastato e avanzato il sindaco, peraltro un uomo di destra come Gianni Alemanno. Che invece se n’era astenuto.
Ma quello fu solo l’antipasto. Cui seguirono le pietanze del dissenso pubblico sui temi della giustizia e dell’economia, la sfida di Fini a “cacciarlo”, alla fine accettata dal Cavaliere con un documento di commiato, a dir poco, dal quale il presidente della Camera si sentì autorizzato ad ospitare nel suo ufficio riunioni preparatorie di una mozione di sfiducia al governo. Che solo un intervento a gamba più o meno tesa del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, deciso a mettere prima al sicuro l’approvazione della legge finanziaria nei termini ordinari della Costituzione, rimase congelata per alcune settimane. Durante le quali Denis Verdini, allora plenipotenziario di Berlusconi, raccolse fra i gruppi di opposizione un numero di “responsabili” sufficiente a compensare le perdite del centrodestra e a salvare il governo. La cui crisi però fu solo ritardata di meno di un penoso anno.
Neppure la successiva, diciassettesima legislatura fu di rose nei rapporti fra maggioranza e presidenze delle Camere. Al vertice di Montecitorio la vendoliana Laura Boldrini arrivò nella presunzione, o speranza, dell’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani di allestire un governo “di minoranza e di combattimento” aperto ai grillini. Poi invece arrivarono le cosiddette larghe intese nelle edizioni di Enrico Letta, di Matteo Renzi e di Paolo Gentiloni, rispetto alle quali la Boldrini visse, e fu vissuta, diciamo così, faticosamente.
Decisamente più traumatica fu l’esperienza al Senato, dove Grasso entrò con un gruppo di maggioranza, quello del Pd, uscendone con un altro, di opposizione, ma mantenendo la presidenza dell’assemblea. E lasciando aperta col Pd addirittura una vertenza economica per contributi non versati.
Ora, in questa splendente diciottesima legislatura, quella del “cambiamento”, e della “terza Repubblica” finalmente intestata da Luigi Di Maio ai “cittadini”, dopo la prima e la seconda evidentemente dominata dalle odiate e sfrontate “caste”, abbiamo già il presidente della Camera Roberto Fico in rotta di collisione col suo partito e con la sua maggioranza sul terreno mica secondario dell’immigrazione. E una presidente del Senato, la forzista Maria Elisabetta Alberti Casellati, in rotta, sia pure dissimulata, col presidente della Camera, e con la maggioranza di governo, sul tema sicuramente minore ma fortemente simbolico della guerra ai vitalizi degli ex parlamentari, o congiunti superstiti, senza distinzioni di età, di reddito e di quant’altro. E già questo basterebbe e avanzerebbe per diffidare del problema promosso a discrimine addirittura fra gli onesti e i disonesti.