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Guglielmo Piazza era un importante dirigente sanitario del Ducato di Milano durante la “grande peste” che colpì la città lombarda nel 1630, flagellando tutto il nord Italia con oltre un milione di vittime.
La sua tragica vicenda è raccontata da Alessandro Manzoni nello splendido Storia della colonna infame, un saggio terribilmente attuale, capace di illuminare l’intreccio diabolico tra psicosi collettive e culture autoritarie. Ecco i fatti.
Nel pieno dell’epidemia di peste Piazza fu avvistato da una cittadina, Caterina Trocazzani Rosa, mentre camminava lungo un edificio facendo strisciare la mano sul muro.
Stava compiendo una normale ispezione per prendere appunti sulle condizioni igieniche degli edifici, e marciava raso muro per proteggersi dalla pioggia, ma la donna era convinta che stesse spargendo oscure sostanze, le stesse responsabili dell’epidemia di peste: «Vide un uomo con la cappa nera e qualcosa in mano», insomma un “untore”.
Piazza viene catturato dagli agenti del capitano di giustizia spagnolo e immediatamente incriminato sulla base delle strane accuse della signora Trocazzani Rosa. Con lui viene coinvolto Gian Giacomo Mora, il barbiere che gli avrebbe consegnato la sostanza venefica. Automatica la condanna a morte tramite supplizio emessa dopo una “confessione” di Piazza estorta con la tortura e con la promessa di garantirgli l’immunità. Anche non c’era alcuna prova contro di lui; nel suo appartamento le guardie non avevano trovato nessun indizio che ne facesse un untore e nulla nella sua condotta passata ha mai giustificato simili calunnie.
La descrizione che fa Manzoni dell’agonia di Piazza e Mora è di rara crudezza: «Tanagliati con ferro rovente, tagliata loro la mano destra, spezzate le ossa con la rota e in quella intrecciati vivi e sollevati in alto; dopo sei ore scannati, bruciati i cadaveri, le ceneri gettate nel fiume, demolita la casa di Mora, reso quello spazio inedificabile per sempre e su di esso costruire una colonna d’infamia».
Scene raccapriccianti ma il popolo, stremato dalla peste e dalla carestia, aveva bisogno di un capro espiatorio, di qualcuno che placasse la sua sete di “giustizia” che mondasse la colpa collettiva attraverso l’espiazione individuale. È un meccanismo psicologico studiato a fondo dall’antropologia, dalla sociologia, dalla psicologia dei gruppi.
Questo vale per le società primitive, per i regimi dispotici e persino per le democrazie seppur limitato dai filtri e dalle garanzie del moderno stato di diritto. Sono passati più di quattrocento anni e per fortuna la Lombardia non è più governata dalle feroci autorità spagnole.
Ma l’idea di placare «la sete di giustizia e verità» dei cittadini, come ha spiegato ai giornali il procuratore capo di Bergamo titolare dell’inchiesta sulla presunta mala gestione della pandemia di Covid 19 da parte del primo governo Conte e dai vertici della regione è esattamente la stessa descritta da Manzoni: le inchieste a furor di popolo, l’idea che la macchina giudiziaria debba in qualche maniera rispondere agli umori dell’opinione pubblica facendosi condizionare da elementi estranei al diritto penale.
Additare l’ex premier Conte, l’ex ministro Speranza e i dirigenti politici e sanitari lombardi come principali responsabili delle migliaia di vittime di Covid (sono accusati di epidemia colposa e omicidio plurimo colposo) è un’inferenza degna dei tribunali del Ducato di Milano ai tempi della grande peste e dell’occupazione iberica. Hanno preso delle decisioni, forse alcune sbagliate, ma questo è accaduto un po’ ovunque nel mondo, dalla Cina agli Stati Uniti, dall’Europa all’India e al Sudamerica. La cornice caotica della pandemia e di un morbo implacabile che nessun governo del pianeta riusciva a fermare rende la similitudine manzoniana ancora più disturbante.
Per non parlare degli organi di informazione che pompano l’inchiesta bergamasca con grandi titoli, accompagnando e giustificando l’insensatezza di un’azione penale che, invece di individuare reati tramite delle prove, si dà come missione la ricerca della “verità”, scritta rigorosamente con la lettera maiuscola. Il combinato disposto di procure invasate e scandalismo giornalistico alimenta il meccanismo perverso del processo mediatico, che una delle più grandi piaghe della nostra giustizia.