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«Peppino viene cancellato dal titolo di un film. Non è giusto e Fava avrebbe dovuto parlarne con noi». Umberto Santino combatte da 40 anni per tenere viva la memoria di Peppino Impastato, diventato un simbolo della lotta alla mafia ma trasformato dai filtri cinematografici in qualcosa che non è. Un’immagine edulcorata, «adatta al grande pubblico», che non piace a chi ha assistito alla ribellione di Impastato ai legami di sangue e al ' mito' mafioso. Il presidente del Centro di documentazione intitolato all’attivista di Cinisi assassinato dalla mafia ne parla con passione, prendendo le distanze dalla scelta di Claudio Fava di dare il nome ' Cento passi' alla lista con la quale si candiderà alla presidenza della Regione Sicilia. Una scelta irrispettosa, secondo Santino, che, come racconta al Dubbio, considera l’immagine mediatica di Peppino «una sconfitta».
Parliamo della scelta di Fava e della polemica successiva. Cos’è successo?
Il Centro, così come la famiglia di Peppino, ha ritenuto scorretta la scelta di Fava o chi per lui. Avrebbe potuto almeno dire ai familiari che aveva questa intenzione, si tratta di una questione di elementare correttezza. Lui dice bene quando sottolinea che ' Cento passi' è ormai un’icona di tutti, ma quell’icona fa comunque riferimento a una storia, a Peppino, all’impegno dei suoi familiari, dei compagni e del Centro. A nostro avviso andava evitato. Ma quando Fava dice di aver avvertito i familiari e Giovanni ( il fratello di Peppino, ndr) dice che non è vero e che se continua a sostenerlo ricorrerà al tribunale dispiace. Ammetta la scorrettezza e chiudiamo la questione. Noi facciamo il nostro lavoro, lui il suo. Sarebbe importante però che lui riconoscesse l’errore.
' Cento passi' è ormai un simbolo, ma basta davvero a raccontare quello che è stato Impastato?
Peppino viene cancellato con un riferimento al titolo di un film che a me non è nemmeno piaciuto. E non mi è piaciuto perché sviluppa la metafora del vicinato, della continuità, come se la cosa veramente significativa fosse che a cento passi da casa Impastato c’era la casa del boss Badalamenti. Ma l’unicità di Peppino era un’altra, era la sua antimafia che viene da un padre di mafia. La metafora del film vale per 60 milioni di italiani: quasi tutti hanno a 100 passi da casa un capomafia. Peppino è un caso unico, perché la mafia era la sua biologia e lui le si è ribellato.
Quindi il film non racconta il Peppino che conosceva lei?
Il Peppino apologo della bellezza in cui gli si fa dire ' finiamola con queste fesserie della lotta di classe e insegniamo la bellezza'? Era un’immagine edulcorata, che andava bene per il grande pubblico. Il Peppino storico, che era un comunista rivoluzionario, è in netta contraddizione con l’icona che si è creata, quella di uno che contava i passi.
Che è l’immagine creata da Fava e che ora usa per la sua lista.
È vero, l’icona l’ha inventata Fava ma io glielo dicevo che la cosa dei cento passi su Peppino non poteva tenere. L’immagine mediatica che ha raggiunto milioni di persone non risponde molto alla sua storia, alla sua personalità. Da questo punto di vista abbiamo perso.
Quali sono le vittorie?
La condanna dei responsabili del suo omicidio, quando tutti lo dipingevano come un pazzo terrorista. Abbiamo vinto sul piano giudiziario. Con ritardo, ma abbiamo vinto. E abbiamo vinto sul piano politicoculturale, con la relazione della Commissione antimafia sul depistaggio che ci fu nelle indagini sulla sua morte, che è un fatto unico nella storia repubblicana. Quando fui consulente della Commissione proposi di fare la stessa cosa per le stragi, ma questo invito nessuno l’ha accolto. La stessa proposta, questa estate, alla Summer school di Milano, l’ha fatta il presidente del Senato Pietro Grasso. Spero si faccia, perché su queste cose non c’è una verità giudiziaria. Se queste cose vengono fatte solo dai sociologi o dai giornalisti hanno un altro senso, rimangono un fatto privato.
Facciamo un passo indietro: il funerale. Come andò?
Eravamo più di mille persone ma contrariamente a quanto si vede alla fine del film, di Cinisi e Terrasini c’erano pochissime persone. Non c’era una comunità che si appropriava del proprio eroe, non c’erano nemmeno le scuole. Non c’era niente di istituzionalizzato, come del resto non c’è alle iniziative che facciamo adesso. È rimasta l’idea che Peppino era un giovanotto un po’ pazzo. La comunità non si riconosceva in lui ma in Badalamenti, che è stato per anni un grande trafficante di droga.
I giornali come trattarono la cosa?
Ci fu silenzio sull’omicidio, se si esclude Lotta Continua e il Quotidiano dei lavoratori, che poco dopo chiusero. Gli altri giornali misero la notizia in secondo piano per via del ritrovamento del corpo di Aldo Moro. Ricordo in particolare il Manifesto, che gli dedicò un trafiletto per le elezioni e parlò di Peppino solo alla fine del pezzo. Si comportarono malissimo. Alcuni scrissero che era un terrorista, anche l’Avanti. Un mese dopo il delitto abbiamo diffuso un bollettino del Centro in cui documentavamo l’attività di Peppino, con un inserto con la rassegna stampa. È stata una guerra contro il silenzio e contro il palazzo di giustizia, ad eccezione di Rocco Chinnici e pochi altri.
Parla del depistaggio?
Sì. Presentammo un esposto in procura, nel quale dicevamo che si trattava di omicidio. La stessa mattina partecipai ad un incontro alla facoltà di Architettura, al quale prese parte il medico legale Ideale del Carpio, che spiegò che non c’erano tracce di esplosivo tra le mani ma sotto il torace. Quella era la prova che si trattava di omicidio. L’ 11 maggio a Cinisi c’era il comizio di chiusura della campagna elettorale di Democrazia Proletaria, con un dirigente nazionale, Franco Calamita, al quale doveva parlare anche Peppino. Chiesero a me di farlo. In questo comizio ho parlato della mafia del tempo e ho indicato in Badalamenti e nei mafiosi di Cinisi i responsabili del delitto.
Quando conobbe la famiglia di Peppino?
Il 16 maggio, quando la madre e il fratello si costituirono parte civile. Io ho saputo dopo che Peppino era figlio di mafioso e nipote di capomafia e ciò destò un grande interesse per questa storia e per questa famiglia, che rompeva con la parentela mafiosa. Da allora è cominciata una vicenda lunghissima per salvare la memoria di Peppino, perché quasi tutto il palazzo di giustizia pensava che avesse fatto un attentato suicida.
Cosa avete fatto?
Abbiamo iniziato a bombardare la procura con documenti. Una delle prove è stata la raccolta, da parte dei compagni, delle pietre macchiate di sangue che dimostravano che Peppino era stato tramortito in un casolare. Abbiamo ottenuto giustizia con le condanne di Badalamenti e Palazzotto e con la relazione sul depistaggio messo in atto dal procuratore capo e dal generale dei carabinieri, che hanno condotto le indagini soltanto sul ' terrorista' Peppino, ignorando la sua lotta decennale.