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Il Ministro della Difesa Giuido Crosetto con il Gen. Francesco Paolo Figliuolo e il Gen. Giovanni Maria Iannucci in occasione della conferenza stampa sulla situazione in Libano e coinvolgimento del contingente UNIFIL
Giorgia Meloni è stata l’unica leader europea, anzi occidentale, ad alzare il telefono, dopo l’ennesimo attacco israeliano a una postazione Unifil, per chiamare Bibi Netanyahu e dirgli a muso duro che stavolta ha e avrà l’Italia contro. Del resto il nostro è stato sin dall’inizio uno dei Paesi più severi con Israele, dopo le prime aggressioni. Il ministro Crosetto ha chiamato più volte l’omologo israeliano Gallant, di cui è amico personale. Domenica, lo stesso ministro italiano ha spinto il capo di Stato maggiore generale Portolano ha chiamare il capo di Stato maggiore israeliano Halevi per reclamare e lo stesso Portolano si è spinto sino ad affermare che l’Italia potrebbe rispondere al fuoco.
L’irritazione del governo italiano è reale, anche perché Roma è per ora l’unica cancelleria europea preso di mira. Ma risponde anche a un calcolo politico. Oggi sono previste in Parlamento le rituali comunicazioni della premier in vista del Consiglio europeo del 17 e 18 ottobre. Ma sul tavolo di quella riunione la crisi libanese terrà banco e così, a maggior ragione, in Parlamento. La premier prevede a ragion veduta un fuoco di fila dell’opposizione e non intende fare la figura della leader debole. Però non vuole neppure seguire Macron (e l’opposizione italiana) nella richiesta di sospendere del tutto la fornitura d’armi a Israele. Ufficialmente la cessione di armi è già stata sospesa. Ma l’Italia continua a onorare i contratti già firmati e di fatto, pur senza firmare nuovi contratti, le armi continuano ad arrivare. La faccenda è molto più complicata di così. Alla luce del sole le staffilate del governo italiano sono tutte e solo contro Israele.
La difesa delle Nazioni unite è corale. L’esaltazione delle missioni di pace ripetuta come un mantra. A porte chiuse invece campeggia una irritazione altrettanto forte nei confronti delle Nazioni Unite e in particolare del segretario generale Guterres, accusato in privato ma senza mezzi termini di aver provocato il disastro per il suo assoluto schieramento filo palestinese e anti- israeliano. Se le telefonate con Gallant, la convocazione dell’ambasciatore israeliano da parte dello stesso Crosetto e il colloquio telefonico fra la premier e Netayahu sono stati notificati con gli altoparlanti al massimo è stata invece circondata dal massimo riserbo la telefonata altrettanto furibonda, subito dopo l’attacco subìto dall’Italia, tra il nostro ministro della Difesa e il capo delle missioni Onu Jean- Pierre Lacroix.
Il problema, per dirla senza perifrasi, è semplicemente che le accuse di Netanyahu non sono affatto prive di fondamento e nessuno lo sa meglio del governo italiano che su quel tasto batte senza sosta ma sempre inutilmente da quando è iniziata la crisi e anzi da ancora prima. La missione Unifil è un fallimento completo. La sua ragion d’essere era e sarebbe garantire il rispetto della Risoluzione 1701, cioè la creazione di una fascia smilitarizzata tra i il fiume Litani e il confine di Israele.
Da quella zona, invece, Hezbollah tira missili sulla Galilea da ben prima del 7 ottobre. In questa situazione la milizia sciita non ci ha messo molto a capire che piazzare i propri depositi e le proprie batterie a ridosso delle postazioni Onu significava disporre di un riparo sicuro.
Con le regole di ingaggio della missione, che impediscono anche solo di fermare un camion o un’automobile sospetta e impongono in casi simili di limitarsi ad avvertire le forze armate libanesi, i contingenti dell’Onu non potevano fare molto di più, peraltro. Per questo Crosetto aveva chiesto in tutte le lingue di fare in modo che la 1701 fosse rispettata, avvertendo che in caso contrario prima o poi inevitabilmente avrebbe provato a farlo «qualcun altro», cioè le Idf.
Ma l’Italia ha sempre bussato invano e ora si trova in un vicolo cieco. Non si può sganciare perché verrebbe coperta dal discredito internazionale. Può insistere per passare da un’inerme missione di Peacekeeping come è quella in Libano a una ben più agguerrita missione di Peace Enforcing, ma per il passaggio sarebbe necessaria la fine delle ostilità e Israe- le non ha alcuna intenzione di fermarsi. In questo momento smobilitare la missione suonerebbe come una resa alla prepotenza di Israele e dunque è preclusa anche questa via d’uscita che sarebbe di gran lunga la cosa migliore per l’Italia anche se lo si può ammettere solo a porte chiuse, non il ritiro dell’Italia ma quello dell'intera missione deciso dal Palazzo di Vetro.
In questa difficile situazione la premier e il ministro della Difesa si tengono in equilibrio come possono ma sanno che si tratta di un equilibrio precario. Una posizione comune dell’Unione tale da andare oltre le parole per passare ai fatti, con la sospensione dei rifornimenti di armi o il ritiro degli ambasciatori, è poco plausibile. Anche solo mettere insieme le 27 firme necessarie per la dichiarazione di condanna degli attacchi contro Unifil domenica notte è stata un'impresa, essendo contrari per motivi diversi parecchi Paesi, come Germania, Repubblica Ceca e Ungheria. La posizione filo israeliana di Orbàn poi ha un riflesso preciso in Italia: se si arrivasse a decisioni estreme la Lega probabilmente si metterebbe di mezzo e non è escluso che lo faccia già oggi in Parlamento. Se su questa santabarbara cadesse la fiamma di un militare italiano ferito la situazione della premier diventerebbe molto difficile. Però più che protestare e tenere le dita ben intrecciate Giorgia non può fare.