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IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO GIORGIA MELONI
La tempra e la capacità dei leader politici si misura nei momenti difficili: la sola prova della verità è quella e per Giorgia Meloni è arrivato il momento di affrontarlo. La leader di FdI è certamente una politica dotata di talento ed esperienza, sia nella politica “di strada” che in quella “di Palazzo”. Per alcuni anni però la vita le ha sempre servito carte vincenti: il suo merito è stato saperle sfruttare. Quando tutti i partiti sono entrati in massa nella maggioranza che sosteneva il governo Draghi la presidente di FdI, partito che già da un po’ aveva comunque preso la rincorsa dopo il crollo di Salvini al Papeete, si è resa conto di avere un’occasione irripetibile, il monopolio completo dell’opposizione, e non se la è lasciata sfuggire. È stata però sufficientemente accorta e previdente da non imbastire un’opposizione caciarona e solo propagandistica, come avrebbe probabilmente fatto l’uomo da comizio Salvini. Al contrario si è mostrata responsabile al punto di essere molto apprezzata sia dal premier al quale si opponeva, Mario Draghi, sia dal segretario del primo partito di maggioranza, Enrico Letta. Con entrambi i rapporti proseguono a tutt’oggi.
La guerra in Ucraina è stato un altro asso pescato nel mazzo. Giorgia lo ha giocato perfettamente, intuendo subito che la svolta da putiniana ad atlantista, per essere presa sul serio e rivelarsi estremamente redditizia come di fatto è stata, doveva essere radicale e senza alcun chiaroscuro. La sgangherata e suicida linea di un Letta che aveva chiaramente perso la testa le ha consentito non solo di vincere ma di stravincere le elezioni. L’opportunismo sfacciato della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e la politica di apertura a destra del Ppe hanno per un po’ rovesciato le aspettative nei rapporti con l’Europa: doveva essere il suo tallone d’Achille, per due anni è stato il fronte più forte. Forte di questa raffica di circostanze per lei positive ma anche della sua capacità di metterle a frutto Giorgia Meloni ha potuto esercitare una premiership incontrastata, fatti salvi i ringhi inoffensivi di Salvini, fino alle elezioni europee.
In poche settimane è cambiato tutto. Le cose sarebbero diventate più difficili comunque: partito con piglio già austero il governo dovrà diventarlo ancora di più nei prossimi mesi e anni, e sarebbe stato un problema in ogni caso. Le elezioni nei Paesi europei, nonostante i voti raccolti dalle varie destre nazione per nazione, non sono andati secondo gli auspici e le previsioni della sorella tricolore e l’impatto sul quadro italiano è stato per lei
il più spiacevole: in combinato con i risultati delle elezioni ha di fatto imposto a un centrosinistra che sembrava paralizzato dalle divisioni l’unificazione. Anche le tensioni con il Quirinale, una volta avviato il percorso di riforme che a Sergio Mattarella non possono che dispiacere molto era più o meno inevitabile anche se l’abitudine a straparlare degli esponenti della maggioranza, e qualche volta della stessa premier, hanno peggiorato il quadro.
Il vero disastro però sono state le elezioni europee. Avendo capito per tempo che oggi è il quadro europeo quello che sovradetermina gli equilibri nazionali, la premier italiana aveva scommesso moltissimo, quasi tutto, sullo spostamento a destra degli equilibri europei. Ma la politica italiana è un lago, l’Europa è l’oceano: acque popolate da pescecani spietati e capaci di giocare duro sul serio. Quelle acque Meloni le conosceva poco è l’esito di una partita che sembrava destinata al trionfo è stato opposta. Presa di mira dai nemici senza esclusione di colpi, abbandonata dagli amici con Ursula e i Popolari, isolata dagli alleati di destra che non hanno esitato un secondo a partecipare al massacro la premier italiana non è stata solo superata e battuta: è stata buttata fuori dalla pista.
L’effeto in Italia è stato immediato. La riottosità inoffensiva degli alleati è diventata contundente. In due giorni Tajani ha dato battaglia sulle carceri, si è scagliato contro La Russa, si è espresso di fatto a favore dello scioglimento di CasaPound. Soprattutto ha iniziato a mettersi di mezzo su un terreno delicatissimo ed esplosivo come quello dell’Autonomia e gli equilibri tra le varie riforme sono tali che puntare i piedi su una significa metterle a rischio tutte. Salvini, da parte sua, non si limita più alla ringhiosità a uso telecamere: pretende posti, fa il guerrigliero, si scalda nella speranzosa attesa della vittoria di Trump.
Dalla mazzata europea in poi, Meloni non tocca più palla. Soprattutto non riesce più a tenere sotto controllo gli alleati e la situazione è destinata a peggiorare quando, in autunno, le difficoltà di bilancio inizieranno a mordere con tutti gli effetti divisivi e detabilizzanti del caso, e non saranno pochi. L’assenza di reazione sino a questo momento è comprensibile e giustificata. Qualunque leader politico, dopo una sconfitta strategica e campale come quella subita da Meloni in Europa, resterebbe per un po’ tramortito. Ma i tempi della politica sono impietosi: se non riuscirà a riprendere le redini della sua maggioranza in tempi molto rapidi la presidente ammaccata non ci riuscirà più. A quel punto la profezia di Renzi sulla fine anticipata della legislatura diventerebbero infinitamente più realistiche.