PHOTO
Il deputato Rampelli con la premier Meloni
C'è chi si affida alla psicoanalisi e chiama in causa il parricidio. C'è chi preferisce restare con i piedi sul terreno della politica e la mette come scontro tra due concezioni strategiche e due aree di potere interne al partito diverse e oggi confliggenti. Di certo c'è che lo scontro tra la premier Giorgia Meloni e il suo ex leader e mentore Fabio Rampelli segna la prima incrinatura nella immagine sin qui monolitica di una FdI perfettamente allineata al comando della leader che ha portato i tricolori dall'area stentata sopravvivenza del 4 per cento ai fasti del primo partito italiano con il 30 per cento e passa dei consensi.
Va chiarito che Rampelli non è solo un esponente di spicco del partito di Giorgia. Ne è stato l'eminenza grigia e per parere unanime il vero leader per anni. È il leader di una corrente, quella dei “Gabbiani”, che a Roma è maggioritaria e Roma, per il partito erede del Msi, vale quanto Milano per la Lega, così come il Lazio ha per il partito tricolore la stessa importanza che la Lombardia riveste per il Carroccio. È la roccaforte, lo zoccolo duro, il bacino dove non si deve temere più che tanto la proverbiale volatilità del consenso degli italiani. Giorgia, 17 anni meno dell'ex mentore nato nel 1960, è cresciuta alla scuola del capo dei Gabbiani, è stata sin dai primi passi in politica e per tutta la lunga fase di An “una rampelliana”.
La rottura era nell'aria da parecchio: arrivata al potere l'ex rampelliana ha bocciato la nomina del leader romano a ministro, poi a presidente della Camera, infine a candidato con l'elezione in tasca per la presidenza del Lazio. La mazzata finale è arrivata un paio di giorni fa, con la rimozione del capo della Federazione romana Massimo Milani, un “gabbiano”, sostituito da Giovanni Donzelli, meloniano a tutto tondo. Motivo del grave provvedimento, una manifestazione elettorale al teatro Brancaccio nella quale il coordinatore dimesso aveva spacciato come “del partito” quelle che erano invece candidature della corrente rampelliana: «Bisogna gestire con terzietà la corsa alle preferenze», ha sentenziato la leader. Il silurato non l’ha presa bene e il suo padrino ancora peggio: «Milani ha chiesto la revoca immediata del provvedimento. Sono convinto che un partito serio e strutturato come il nostro accerterà i fatti e lo reintegrerà quanto prima».
Inutile dire che la convinzione di Rampelli ha poche chances di essere confermata dai fatti. Lo scontro si spiega in parte proprio con quella funzione da puparo che Rampelli ha esercitato nei primi anni dalla nascita di FdI. La leader non vuole padrini e tanto meno diarchie. Dunque si industria a occupare con il suo gruppo di strettissima fiducia le postazioni chiave e quelle del Lazio lo sono per antonomasia. C'è probabilmente di più.
La premier è lanciatissima nel progetto di imporre non solo agli italiani ma nel mondo l'immagine di una “nuova” Giorgia Meloni che rivendica, sì l'eredità del Msi e l'albero genealogico fatto risalire a Giorgio Almirante, «fondatore della destra democratica», però prende le distanze dall'anima più legata alla destra estremista e a quella sociale del nuovo “partito conservatore”. Su questa strada un esponente anche biograficamente più legato al passato e ingombrante come Rampelli è o può essere un ostacolo.
I lunghi coltelli di Giorgia sono affilati ma rappresentano anche un azzardo. La partita della benzina è stata fallimentare e la leader si ritrova oggi contestata proprio da una parte importante della propria base. I consensi sia del partito che del governo calano per la prima volta da mesi anche se quelli personali della premier si mantengono invece in quota elevata. Segno che a premiarla è una base moderata di destra, non necessariamente di FdI e tanto meno del suo zoccolo duro, che apprezza la sua correzione di rotta nel segno della prudenza e del moderatismo.
La partita è dunque aperta e affidata all'azione di governo. Se riuscirà a non deludere ulteriormente il proprio elettorato la premier non dovrà temere troppo la nascita di una fronda nel suo stesso partito. Ma se invece mancherà il bersaglio, come le è già capitato, e i consensi caleranno ad aspettarla con i pugnali sguainati non ci saranno solo gli alleati esterni ma anche parte della famiglia tricolore.