Se si chiede con la dovuta discrezione a chi conosce il Colle come Sergio Mattarella abbia accolto l'intemerata di Giorgia Meloni contro il Manifesto di Ventotene, la risposta è quasi sarcastica. In effetti non servono gole profonde per capire come il presidente della Repubblica fieramente e apertamente europeista, che in occasione dell'ottantesimo anniversario del Manifesto, il 29 agosto 2021, aveva esaltato i suoi autori e il loro test, abbia preso l'attacco della premier. Malissimo. Con disappunto e irritazione.

Ma non significa che ne abbia chiesto ragione o che intenda farlo. Non sarebbe nello stile del Capo dello Stato. Certo, il tradizionale pranzo al Quirinale alla viglia dei Consigli europei stavolta è stato freddo e il capo dello Stato ha evitato un'altra tappa fissa in occasione delle riunioni del Consiglio, l'incontro a quattr'occhi prima di pranzo. E si può anche essere ragionevolmente certi che quando l'occasione si presterà Mattarella non mancherà di alludere più o meno direttamente al Manifesto di Ventotene e alla sua attualità. Ma oltre questo non dovrebbe andare. Anche perché il momento è troppo delicato per consentire ulteriori tensioni.

Da quando è iniziata la partita del riarmo europeo, in realtà dalla clamorosa sterzata di Trump che nessuno in Europa si aspettava con modalità tanto drastiche, il presidente ha accumulato delusioni a destra e a manca. Non ha apprezzato affatto il distinguo che ha spinto, per la prima volta dall'inizio della guerra, Giorgia Meloni ad astenersi sull'Ucraina. Pur non essendo certo un fanatico delle divise e delle armi non ha gradito però neppure il voto contrario al ReArm Europe del Pd. Condivide in pieno la necessità di accelerare la marcia verso un vero esercito comune ma non ritiene che contrastare il primo passo in quella direzione sia il modo migliore per centrare l'obiettivo.

Infine si può facilmente immaginare il disappunto di fronte alla palese ostilità verso ogni progetto non solo di riarmo ma anche di esercito comune di una forza essenziale della maggioranza come la Lega ma anche del secondo partito dell'opposizione, il M5S. In queste condizioni la premier, alla quale a differenza di Elly Schlein spettano scelte decisionali vincolanti, si troverebbe in un mare di guai se l'Europa facesse sul serio. Ma è un periodo ipotetico dell'irrealtà. A tirare fuori dai guai la premier ci penseranno ancora una volta le eterne divisioni dell'Unione, il contrasto cioè tra gli interessi nazionali destinati ancora una volta a prevalere su ogni visione comunitaria.

È molto difficile che il Consiglio arrivi a decisioni concrete, di quelle che metterebbero in vera difficoltà la premier, sul riarmo. La proposta contenuta nel Libro Bianco presentato due giorni fa dalla presidente della Commissione è tanto sfacciatamente cucita sulla misura degli interessi tedeschi da essere bocciata, nel suo essenziale versante finanziario non solo dall'Italia ma da una quantità di altri Paesi a partire dalla Francia. La linea del fronte è netta: l'Italia non osteggia il riarmo ma non vuole che quella spesa incida sul suo debito, pur se svincolato dai lacci del Patto di Stabilità. Mira a incentivare soprattutto gli investimenti privati, grazie alla garanzia non dei singoli Stati ma dell'Unione stessa. È probabile che per chiudere la trattativa ci vogliano mesi e come sarà la situazione se e quando ci si arriverà nessuno può prevederlo.

È un movimento anche più falso quello sulla missione "volenterosa" in Ucraina, quella sponsorizzata soprattutto da Francia e Uk. Qui il presidente è solidale con la premier. Non vuole chiudere ogni spiraglio, da politico navigato qual è. Ma ritiene che parlare oggi, in largo anticipo su una pace che ancora non c'è, di missioni di peacekeeping sia inutile se non dannoso. La missione anglo-francese alla quale si sono detti pronti una trentina di Paesi ma non l'Italia, la Germania e la Polonia, comunque, sarebbe di fatto una spinta in direzione opposta, verso la guerra, e nonostante a Bruxelles ci sia chi vorrebbe correre il rischio è molto improbabile che le bellicose intenzioni si traducano in stivali sul terreno.

In questa situazione, se Giorgia eviterà di ripetere la gaffe della Camera, le condizioni per non ledere i rapporti col Colle ci sarebbero e la Giorgia Meloni che abbiamo conosciuto sinora come premier starebbe ben attenta. Ma come si comporterà la nuova Giorgia, quella che in un contesto tutto diverso si muove con minore prudenza, è ancora da scoprire.