«I nostri soldati impegnati in missioni fuori area hanno assolutamente bisogno di un quadro normativo chiaro dove poter facilmente distinguere cosa è lecito da cosa non è lecito», afferma Maurizio Block, procuratore generale militare presso la Corte di Cassazione. Quanto sta accadendo in questi giorni nel sud del Libano con l’esercito israeliano che ha attaccato delle postazioni sotto il controllo di Unfil, con il ferimento di alcuni caschi blu, ha messo ancora una volta in evidenza le criticità della legislazione militare. A tale missione partecipano infatti soldati italiani, impiegati per pattugliare il confine meridionale del Libano con Israele fin dal 1978.

Il mandato per l’operazione - nota come Forza di Interposizione delle Nazioni Unite in Libano - viene rinnovato ogni anno dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Sul punto una premessa è d’obbligo. I codici penali militari, di pace e di guerra, attualmente vigenti risalgono al 1941 e quindi fanno riferimento ad un contesto sociale ormai superato. «Noi auspichiamo da anni una riforma di questo codici. Sono state predisposte in passato delle Commissioni per il loro aggiornamento ma al momento siano fermi», prosegue Block. Sul motivo del ritardo il procuratore generale ha le idee chiare: «Per anni abbiamo sempre pensato che la guerra fosse un qualcosa di lontano da noi. La situazione è cambiata con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e, lo scorso anno, con l’inizio del conflitto fra Israele ed Hamas».

Ai militari impegnati fuori area non si applica il codice militare di guerra ma quello pace, unitamente al codice penale ordinario. «In pratica - commenta Block - i nostri soldati sono come il cittadino italiano che si trova all’estero per turismo». Una legge del 2016 ha infatti previsto che il codice militare da applicare in questi casi sia solo quello di pace. «Io credo che la soluzione migliore sarebbe quella di creare un codice per le “missioni internazionali” in cui normare tutte le possibili fattispecie», puntualizza il procuratore militare.

Sullo sfondo, comunque, restano sempre le regole di ingaggio che vengono stabilite di volta in volta per le varie missioni internazionali. Le regole d’ingaggio non sono però dettagliate e prevedono genericamente che l’uso della forza debba essere sempre proporzionale alla minaccia percepita e limitato al minimo necessario per ottenere l’effetto desiderato. Ai caschi blu, ad esempio, è consentito l’uso della forza solo per autodifesa. Trattandosi di missioni in territori dove l’instabilità è una caratteristica predominante, c’è poi la cosiddetta riserva di giurisdizione. Quindi i militari italiani che commettono un reato fuori area sono giudicati dai tribunali italiani e non dai tribunali del luogo. La riserva di giurisdizione si applicò in passato ai piloti del jet americano che tranciarono la funivia del Cermis causando una ventina di vittime. Va ricordato che il tema delle missioni all’estero è molto sentito dalle Forze armate.

A Vicenza esiste il Center of Excellence for Stability Police Units ( Coespu), un centro di addestramento basato sul modello sperimentato dai carabinieri nel corso di missioni di pace all’estero, che forma funzionari di polizia di tutto il mondo destinati a prestare servizio nelle missioni di pace. «Va dato atto al ministro della Difesa Guido Crosetto di essere molto attento a questa problematica, dichiarandosi pronto ad un riflessione complessiva sui codici militari», aggiunge Block, ricordando come la giustizia militare viva oggi una condizione particolare per la scarsità di procedimenti. «Al giudice militare appartiene la cognizione solo di una parte dei reati commessi da militari. Ad esempio, reati tipici del pubblico dipendente, come la concussione e la corruzione, non essendo previsti nel codice penale militare, sono di competenza del tribunale ordinario anche se commessi da militari durante il servizio. Così come non esiste il reato di stalking. Alla luce di tutto ciò che sta accadendo, penso che non sia più rinviabile un confronto sulla giustizia miliare e se quindi la si voglia mantenere oppure se si voglia trasferire tutte le competenze ai giudici ordinari, ad esempio con delle sezioni specializzate», prosegue Block.

«Sarebbe però un vero peccato: la giustizia militare ha tempi di definizione dei processi fra i più rapidi di tutte le altre giurisdizioni ed è molto apprezzata. Non dimentichiamo infine che è fondamentale per un comandante, ma anche per un semplice soldato, non rimanere anni con la spada di Damocle sulla testa del processo penale», conclude dunque il procuratore militare.