Mattarella, dopo la lancia spezzata a favore di Minniti, prova a riequiliberare, in occasione dell’anniversario di Marcinelle. Invita a «riflettere sul dramma di chi emigra» e arriva pronto, in risposta lo strillo a uso bassa propaganda di Matteo Salvini: come osa il capo dello Stato paragonare gli emigranti italiani ai «clandestini mantenuti in Italia per fare casino?». La polemica in questione terrà certo banco per un paio di giorni sulle prime pagine, ma è lo stesso di basso livello. Non altrettanto si può dire invece per l’uscita a sorpresa del Colle in difesa di Minniti del giorno precedente e che, al contrario, rivela una tensione tutt’altro che fittizia.

Quando lunedì sera il Quirinale ha espresso ufficialmente apprezzamento per l’operato dei ministro degli Interni, chiunque conosca le cose di Palazzo si è chiesto se uno dei tanti incendi che flagellano la penisola non stesse divampando proprio dietro l’angolo, tanto imperiosa era la puzza di bruciato. L’elogio rivolto da Mattarella a un singolo ministro era più inaudito che semplicemente irrituale, e tanto più proveniendo da un capo dello Stato tra i meno loquaci e interventisti della storia recente. Quando poi si è saputo che il destinatario dei sentiti complimenti aveva disertato la riunione del consiglio dei ministri fare due più due e concludere che Minniti era furibondo è stato automatico.

Furibondo infatti il ministro degli Interni era ed è, e anche a un passo delle dimissioni. Questa almeno era la minaccia in assenza di un immediato attestato di solidarietà da parte non solo del governo ma anche dello Sato. Il mite Gentiloni non ha potuto fare altro che attaccarsi al telefono e implorare il soccorso del taciturno inquilino del Colle.

Le auspicate parole sono arrivate, la minaccia di dimissioni è sfumata ma il caso non è chiuso. L’intervista del collega Delrio di ieri indica infatti di nuovo, a lettere quasi esplicite, un dissenso profondo dalla linea dura decisa dal ministro con la grinta. Almeno in superficie la sfida è soprattutto tra loro, il cattolicissimo Delrio e l’ex dalemiano del Viminale. Il dissapore data dall’inizio dell’affaire libico. Minniti, fingendo di ignorare il diritto internazionale, aveva minacciato di chiudere i porti a fronte del massiccio afflusso estivo di profughi e migranti. Delrio, fingendo di prendere sul serio la minaccia, si era subito proclamato fieramente ostile.

Il casus belli, però, è stato il trasbordo sulle navi della Guardia Costiera dei profughi salvati dalla nave di Medici senza frontiere. Era ancora fresco di stampa il Codice di condotta, che vieta il trasbordo da nave a nave dei migranti raccolti dalle Ong che hanno negato la firma al Codice medesimo, ed ecco che la Guardia Costiera, che guarda caso dipende dal ministero di Delrio già mostrava di fregarsene alla grande. Minniti è andato su tutte le furie, il giro di telefonate frenetico, l’intervento del Colle provvidenziale ma la partita, come attesta la nuova offensiva del ministro dei Trasporti con l’intervista di ieri resta tutta aperta.

Il punto dolente, quello che manda Minniti davvero fuori dai gangheri, è che nel governo Graziano Delrio non è un ministro tra i tanti, che dà voce solo a se stesso. Delrio è il terminale numero uno del mondo cattolico. Il suo dissenso riflette quello del Vaticano, che del resto non manca attraverso Migrantes, di segnalare le critiche acuminate al Codice di condotta per le Ong voluto da Minniti. Il viceministro degli Esteri Giro, espressione di Sant’Egidio nutre ovviamente i medesimi dubbi. In una situazione così esposta a rischi di ogni tipo, i critici di oggi potrebbero trasformarsi di colpo in plotone d’esecuzione in caso di incidente grave. Minniti lo sa perfettamente e vuole che la responsabilità sia davvero pienamente condivisa.

Ma Delrio, a dispetto di screzi e dissensi che pure ci sono stati spesso, è anche il ministro più vicino a Renzi. Se si espone tanto, è difficile credere che lo faccia senza il beneplacito del segretario del Pd. Le voci che filtrano dal Nazareno, in effetti, bisbigliano di un Renzi a dir poco molto infastidito dalla crescente popolarità del ministro degli Interni, che raccoglie consensi sia a destra che a sinistra proprio grazie al decisionismo e all’immagine di “uomo forte”.

Ma non c’è solo questo. L’intera strategia di Renzi, da premier e poi da segretario del Pd, era centrata sulla difesa e l’allargamento dei diritti civili come prova da esibire di fronte all’elettorato di sinistra reso scettico nei confronti del Pd da misure come il Jobs Act. Renzi si è rassegnato, faticosamente e non ancora definitivamente, al cedimento sullo ius soli, ma di qui a passare per allievo della Lega e dell’M5S sul fronte dell’immigrazione ce ne passa e invece proprio questo è il rischio che si profila con il pugno di ferro del ministro degli Interni.

Il terremoto sfiorato due giorni fa indica quanto tritolo sia stato accumulato sotto la sala del consiglio dei ministri con le scelte della missione in Libia e del Codice di condotta per le Ong. Se esploderà o meno dipenderà esclusivamente dagli eventi delle prossime settimane nelle acque territoriali della Libia.