Nelle ore immediatamente successive alla conferenza stampa di inizio anno, l’attenzione degli osservatori si è soffermata, come è noto, sulle parole spese dalla premier per difendere Elon Musk e Donald Trump. Tra i molti giudizi favorevoli per la verve dialettica mostrata da Meloni per far valere i propri argomenti, c’è stato anche spazio per alcune critiche sul poco spazio dedicato dalla presidente del Consiglio alle questioni europee e alla collaborazione avviata con la Commissione dopo il voto favorevole fornito alla squadra di Ursula von der Leyen e la nomina di Raffaele Fitto a vicepresidente esecutivo.

Ma Meloni sapeva perfettamente che il giorno successivo al suo faccia a faccia coi cronisti ci sarebbe stato quello con l’Alta Rappresentante dell’Ue per la politica estera, Kaja Kallas. Un colloquio, stando alla nota diffusa da Palazzo Chigi, che «ha consentito di toccare i principali temi di politica internazionale a partire dall’invasione russa dell’Ucraina e dalla situazione in Medio Oriente, concentrandosi sul sostegno all’Ucraina e sul processo di transizione in Siria, anche alla luce degli esiti della ministeriale in formato Quint ospitata a Roma dal Vice Presidente del Consiglio e Ministro degli Affari Esteri, Antonio Tajani». «Le due leader», ha poi aggiunto la nota puntando sulle questioni comunitarie, «hanno anche discusso del rafforzamento del ruolo internazionale dell’Unione Europea, con particolare attenzione all’ulteriore sviluppo della collaborazione con il Vicinato Sud e l’Africa, anche nel contesto del Piano Mattei».

Ma nel day after della conferenza, a tenere banco nei capannelli di Palazzo sono tornati i temi della politique politiciènne e in particolar modo il trattamento riservato dalla premier al leader leghista Matteo Salvini, alla disperata ricerca di un guizzo che possa fargli risalire la china nei consensi elettorali e nelle quotazioni interne al Carroccio, dove la fine della mobilitazione generale a sostegno del segretario nel processo Open Arms ha sancito anche il ritorno alla contesa politica per l’indirizzo del partito nei prossimi anni.

La situazione non si può certo dire rosea: i segnali di una base e di una dirigenza inquieta, desiderosa di rimettere verso Nord l’ago della bussola delle politiche leghiste si stanno moltiplicando, e con essi una certa insofferenza di chi incarna lo spirito settentrionalista delle origini, a partire dal governatore del Veneto Luca Zaia, sospeso tra i destini incerti dell’Autonomia e della sua carriera politica.

Ciò che deve avere suscitato la maggiore frustrazione del numero uno di via Bellerio, però, deve essere stata la perifrasi, melliflua ai limiti del beffardo, usata da Meloni per fargli capire che i suoi appetiti sul Viminale non potranno mai essere saziati: «Salvini», ha affermato Meloni, «sarebbe un ottimo ministro dell’Interno ma anche Piantedosi è un ottimo ministro dell’interno. Ha ragione Salvini a dire che in assenza di un provvedimento giudiziario a suo carico avrebbe chiesto e ottenuto il ministero dell’Interno. D’altra parte anche Piantedosi è un ottimo ministro dell’Interno. Allo stato attuale», ha concluso ponendo una pietra tombale sulla questione, «non credo che Salvini al Viminale sia nell’ordine delle cose».

Sul piatto della bilancia, a questo punto, in attesa di quello che deciderà la Consulta sul referendum per l’Autonomia, tenuto conto dell’atto del governo, che ha impugnato la legge campana sul terzo mandato tra le proteste veementi di Vincenzo De Luca, dal versante leghista assume sempre maggiore importanza la partita del Veneto, dove il conflitto tra Lega e partito della premier da latente rischia di diventare conclamato, se non deflagrante. Ma anche su questo punto, la posizione e i toni assunti da Giorgia Meloni non lasciano ben sperare: «Io penso che Fdi debba essere tenuto in considerazione. Penso che di queste vicende si debba discutere con serenità con gli alleati e lo faremo. Ci saranno elezioni regionali ampie e delicate, ne abbiamo cominciato a parlare e continueremo a farlo».