Trecentosessantatrè. È il numero che, da qualche giorno, ha in testa la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. E che corrisponde alla soglia da raggiungere per rendere valida l’elezione del giudice della Corte costituzionale vacante da ormai quasi un anno e cioè da quando, l’11 novembre 2023, scadde il mandato di nove anni della giudice Silvana Sciarra, eletta dalle Aule con l’appoggio di Pd e M5S.

Costituzione alla mano, è previsto che i cinque giudici spettanti al Parlamento siano eletti con voto segreto con la maggioranza dei due terzi di deputati e senatori, riuniti in seduta comune. Questa soglia corrisponde oggi a 403 parlamentari sul totale dei 605 tra deputati e senatori, ma se per tre volte il Parlamento non riesce a eleggere nessun giudice la soglia scende a tre quinti. Cioè al numero magico di 363 parlamentari. Che, guarda caso, corrisponde all’attuale maggioranza di centrodestra.

Con i recenti approdi nel centrodestra dalle truppe di M5S (Giorgio Lovecchio, verso Fi) e di Azione (verso Fi Enrico Costa e al Misto Mara Carfagna, Mariastella Gelmini e Giusy Versace, ma con uno sguardo a Noi moderati) il centrodestra può contare su 363 parlamentari, a cui martedì mattina potrebbero aggiungersi altri voti dalle Autonomie.

È per questo che la leader di FdI ha fiutato l’occasione e vorrebbe approfittarne, tanto da far inviare nelle chat dei suoi parlamentari messaggi quasi “minatori”. «Attenzione, martedì 8 ottobre, ore 12.30, indispensabile la presenza di tutti al voto per la Corte costituzionale - si legge con tanto di bollini rossi -Eventuali missioni vanno rimandate o annullate».

Come ha ricordato il giurista Vittorio Manes, la Corte costituzionale è infatti «un organo tecnico, ma a composizione mista “tecnico-politica”», e dunque i giudici eletti dal Parlamento hanno sempre una certa inclinazione. Da qui i due nomi che circolano in queste ore per la sostituzione di Sciarra, da Carlo Deodato, consigliere di Stato e attuale segretario generale della presidenza del Consiglio, o niente meno che Francesco Saverio Marini, consigliere giuridico della presidente del Consiglio e “primo firmatario” della riforma del premierato.

I quali, se eletti, sarebbero chiamati nei prossimi mesi a decidere su temi come l’abuso d’ufficio abrogato dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, l’Autonomia tanto cara alla Lega, i diritti delle coppie omogenitoriali, le conseguenze del decreto Caivano targato Piantedosi.

L’occasione, insomma, è troppo ghiotta, dopo che già per sette volte, da ultimo il 24 settembre scorso, l’elezione del giudice mancante è terminata con un nulla di fatto, nonostante il presidente della Repubblica Sergio Mattarella abbia parlato di «vulnus alla Costituzione» circa la mancanza del quindicesimo giudice. A tutto ciò si aggiunge il fatto che a dicembre scadranno i mandati anche di altri tre giudici: Giulio Prosperetti, eletto dal Parlamento in seduta comune su indicazione di Area Popolare assieme ad Augusto Barbera e Franco Modugno, sostenuti rispettivamente dal Pd e dal Movimento 5 Stelle.

Tuttavia c’è un fattore che potrebbe far saltare il tavolo, e sta tutto in quella parola magica, contenuta nel dettato costituzionale. Il voto è “segreto”. Di conseguenza, come in tutte le elezioni a voto segreto che si rispettino, è probabile che non manchino i franchi tiratori. In fondo, ne basterebbero poche unità su un totale di oltre 360 parlamentari. Se qualcuno volesse mandare all’aria i piani di palazzo Chigi, insomma, non sarebbe così complicato.