Non è stata una sfida elegante e lo sarà ancora meno nei prossimi giorni. Macron e Scholz, coordinati, si sono mossi in modo durissimo contro la premier italiana. Giorgia Meloni ha risposto allo stesso modo bloccando le nomine dei vertici istituzionali europei, congelate sino al 27, data del vero e proprio Consiglio europeo.

Tutti avevano fretta e lo si può capire: se non si chiude subito l'intesa, già fragile, rischia di sfilacciarsi. I popolari non vogliono il portoghese Costa, socialista, alla presidenza del Consiglio europeo: troppo poco determinato contro la Russia. Per accettarlo chiedono la staffetta, resti un anno e mezzo poi passi le redini a un popolare. Per i socialisti è inaccettabile. La staffetta sarebbe già stata decisa per la presidenza del Parlamento europeo, due anni e mezzo alla maltese Roberta Metsola poi si cambia. A sorpresa proprio i Popolari s'impuntano: mandato pieno e per tutta la legislatura. I socialisti s'imbizzarriscono.

Dubbi da diversi Paesi e famiglie politiche sulla premier estone Kallas come Alta rappresentante della politica estera: pensa solo al confine orientale, insomma alla Russia, e trascura aree ribollenti come il Medio Oriente e soprattutto l'Africa, insomma non dà garanzie sulla politica per l'immigrazione. Paradossalmente il solo nome su cui nessuno obietta, non apertamente almeno, è quello della riconferma di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea. Ma il pacchetto è appunto pacchetto. Se ballano le altre tre poltrone balla anche von der Leyen.

Nella cena dei 27 che avrebbe dovuto calare il poker di nomine e chiudere la partita prima che rischi di complicarsi Giorgia Meloni è entrata a gamba tesa prima ancora che fosse servito l'antipasto. Non se ne fa niente, manca un'analisi sui risultati delle elezioni, il menu di incarichi è stato servito senza concertazione. Se ne riparla tra 10 giorni.

Meloni non poteva fare altro. Prima di arrivare alla cena che di fatto non è servita a niente, Macron e Scholz la avevano esclusa da ogni manovra e da ogni decisione con una brutalità inusuale in questi casi. Doveva essere ben chiaro che Giorgia resta una reietta, nonostante il successo del G7 e la benevola fiducia di cui gode a Washington, nonostante gli ottimi rapporti, almeno sino a qualche settimana fa, con Ursula von der Leyen e il credito di cui sembrava ormai godere a Bruxelles.

Il grosso degli altri capi di governo europei ha assistito non senza qualche sbigottimento a un summit, informale ma con ambizioni decisioniste, nel quale la diplomazia ha lasciato il posto agli sganassoni. Un segno chiaro della tensione estrema che l'affermazione della destra nelle ultime elezioni ha alimentato nell'intera Ue ma soprattutto a Parigi e Berlino.

Nessuno dei tre principali litiganti appartiene al partito che ha vinto le elezioni europee, il Ppe, ed è un'anomalia che complica le cose. Il partito più forte in Parlamento e nel Consiglio ha voce in capitolo, anzi qualcosa in più, ma non dispone di nessun premier di prima importanza per levare alta quella voce e soprattutto è diviso al proprio interno. La corrente che vuole aprire a destra è forte ma il premier polacco Tusk, che guida la delegazione popolare nella trattativa è di fede opposta: ha dato man forte alla manovra per mettere al bando la premier italiana con quel secco: «Non devo convincerla. Abbiamo già la maggioranza senza di lei». Weber, il presidente del partito, si colloca esattamente all'opposto: «L'Europa è di centrodestra. Le nomine devono tenerne conto».

La maggioranza di cui parla Tusk è ampia sulla carta, fragile nella sostanza. Proprio in virtù delle divisioni nel Ppe, senza contare le tensioni fortissime tra popolari e socialisti, un'esplosione di franchi tiratori è possibile, forse anzi è addirittura nell'ordine delle cose.

Rischia di impantanarsi tutto e rischia grosso anche la premier italiana. Il riassetto della destra potrebbe portare alla formazione di un nuovo gruppo, con dentro parti di Ecr e di Id. Potrebbe restarne fuori, alla testa di una Ecr molto ridimensionata oppure entrarci, subendo però l'offensiva di una Marine Le Pen decisa a mantenere nelle sue mani la leadership. Muoversi allo stesso tempo su entrambi gli accidentati sentieri è già difficile e lo sarà anche di più nei prossimi giorni.

In tutto questo non è chiaro qual è la posta materiale in gioco. Forse un commissario di peso, certo, ma anche tale da poter essere brandito come successo a destra e da mettere la leader di FdI al riparo dalle coltellate dei parenti, anzi della "sorella" francese. Dunque un commissario che, in un modo o nell'altro, abbia molta voce in capitolo su quello che, in ultima analisi, resta il fronte essenziale per la destra in tutta Europa: l'immigrazione.