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La presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini
Per ora prevale un certo contegno, e una diplomazia favorita dall'elezione a vicepresidente di Raffaele Fitto, ma già nelle dichiarazioni di ieri di più di un esponente leghista si intuisce quale potrà essere uno dei leitmotiv dei prossimi mesi nelle dinamiche interne del centrodestra. Il via libera della maggioranza che governa a Bruxelles alla nuova squadra dei commissari guidata da Ursula von der Leyen, arrivato nella tardissima serata di mercoledì dopo una lunga giornata vissuta sulle montagne russe, nella quale l'accordo tra socialisti e popolari sembrava cosa fatta ma poi è stato sul punto di saltare, per poi tornare nuovamente operativo, sancisce un evento, per certi versi, politicamente storico. E cioè l'ingresso di una componente di destra (i Conservatori della premier italiana Giorgia Meloni) nel recinto della maggioranza Ue, seppure non a tempo pieno.
Una scelta ampiamente annunciata, nei giorni scorsi, dalla stessa premier, per non fornire alibi al Pd su eventuali veti al nostro ministro. L'iniziativa di Meloni era stata affiancata, sull'altro versante, da quella del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, quando ha ricevuto Fitto al Quirinale, ponendo Elly Schlein in una posizione molto difficile, nella quale accodarsi a Verdi e Sinistra avrebbe significato dare uno smacco inedito (e impensabile) al Quirinale. Ma se nel centrosinistra la divergenza su questo passaggio tra i dem da una parte e l'accoppiata Avs e M5s dall'altra non costituisce un gran problema per nessuno, nella maggioranza di governo l'istituzionalizzazione della collaborazione FdI-Popolari a Bruxelles potrebbe avere dei contraccolpi.
Soprattutto se in questa fase c'è una forza politica – la Lega – che sta vivendo un momento di grande difficoltà, sia a livello elettorale che di prospettiva, alla vigilia di un delicato congresso e dopo la perdita di due presidenti di Regione, gli unici che la coalizione di centrodestra ha ceduto all'opposizione. Un partito ora apertamente alle prese con la definizione della propria identità, come testimoniano alcune affermazioni di suoi illustri esponenti, anche di quelli che non sono soliti esternare spesso. Uno di questi è il governatore lombardo Attilio Fontana, che ha dato voce a un pensiero che sta serpeggiando sempre di più all'interno del Carroccio: «Bisogna rimettere sul tavolo», ha affermato, «quello che è il problema del Nord». «Per il futuro» , ha aggiunto, «credo che dovremo continuare sulla strada di quelli che sono i principi base della Lega e i nostri valori, sostenendo i territori e sostenendo una classe di amministratori locali che è sicuramente la migliore di questo Paese». Parole non banali, nel momento in cui i segnali del riemergere della dicotomia tra Lega nazionale e partito del Nord sono riemersi già nel Consiglio federale post- Regionali, con un confronto tra Salvini e Zaia che i retroscena hanno definito molto franco e che ha spinto il segretario ai giornalisti che la priorità ora è ricandidare un leghista per continuare a guidare il Veneto. Con l'Autonomia in bilico e un consenso in calo, Salvini verosimilmente dovrà riequilibrare i temi su cui intervenire, puntando maggiormente su quelli legati al territorio, come peraltro già fatto capire nella riunione del Federale.
Difficile però pensare di mollare la presa sui temi sovranisti ed euroscettici, proprio ora che i due alleati di governo sono in diversa misura legati politicamente a una maggioranza in cui figurano a pieno titolo i socialisti, gli stessi contro cui nella scorsa legislatura si erano più volte sollevati anche i Conservatori meloniani, soprattutto riguardo al green deal, additato diverse volte dalla stessa premier, anche nel corso di questa legislatura. Non a caso, ieri il capo della delegazione leghista a Strasburgo, Paolo Borchia, ha cominciato a “testare” Fdi: «Bisognerà capire quanto un determinato tipo di elettorato capirà determinate scelte, noi crediamo che ci sarebbero stati i numeri per fare delle scelte diverse anche a livello di Commissione, anche per mandare alcuni messaggi. Cinque anni fa ad esempio la candidata di Macron non era stata ritenuta valida, e stata sostituita. Io mi sarei aspettato che ci fosse stata la possibilità di fare la stessa cosa con la Ribera». «È stato richiesto», ha proseguito, «pressoché da tutti i partiti in campagna elettorale, una discontinuità sul Green deal e ci troviamo con una commissaria Ribera che, a tutti gli effetti, personalmente, a quanto e emerso dalle audizioni, ritengo sia addirittura peggiore rispetto a Timmermans. Per cui adesso», ha concluso, «chi ha parlato di discontinuità in campagna elettorale, penso che dovrà dare delle spiegazioni» .