«Quante divisioni ha il papa?»: la beffarda domanda attribuita al rude Stalin a Yalta, rispunta, mutata di senso, vedendo la concitata attenzione con la quale i leader mondiali, e anche qualche italiano, guardano al Conclave che si aprirà il prossimo 7 maggio. Quanto pesa il papa sulla politica italiana? E quanto sulla geopolitica mondiale?

In Italia, se ci si limita a una valutazione sulla capacità di spostare voti, la risposta è "Ben poco". Se si passa a domandarsi quanto incide sui giochi politici la risposta è "Ancora di meno". Non è sempre stato così, naturalmente. L'ascendente della Chiesa è stato determinante nel dopoguerra e anche molto oltre. Paolo VI, il pontefice più a casa propria nei meandri della politica italiana da molti decenni, aveva un peso specifico inestimabile. Ma le cose sono cambiate. L'influsso sull'elettorato è vicino allo zero e dopo 47 anni di pontificati non italiani poco interessati alle manovre di palazzo o digiuni delle stesse l'ascendente di Oltre Tevere, pur non inesistente, è ridotto.

Allora perché il sottosegretario Mantovano, da sempre vicinissimo al Vaticano e uomo di raccordo tra il palazzo Chigi di Giorgia Meloni e la Santa Sede si dà tanto da fare? Perché muove i tanti fili di cui dispone cercando di spingere l'arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori? Probabilmente perché l'ambizione della destra italiana al potere non è solo vincere le elezioni, risultato al momento garantito dai balbettamenti di un'opposizione votata al suicidio, ma operare un rivoluzione culturale più reazionaria che conservatrice. Betori, sponsorizzato dalla vecchia guardia del Vaticano, i cardinali che essendo ultraottantenni non votano in conclave ma indirizzano e condizionano come Bagnasco e Ruini, sarebbe l'uomo giusto per fare da sponda a quel progetto.

In particolare c'è un punto chiave sul quale le posizioni del Vaticano ostacolano e danneggiano la marcia della destra è l'immigrazione e proprio su quel fronte nevralgico Betori si è scontrato apertamente con Bergoglio.

Ma il blitz reazionario è un progetto di massima e probabilmente un miraggio. Mantovano e Meloni si accontenterebbero di un pontefice di mediazione, in continuità con Bergoglio ma cauto e diplomatico come Parolin, il cui rapporto con Mantovano, del resto, va a gonfie vele. Le alternative, soprattutto le due italiane, sarebbero per il governo ben più pericolose. Zuppi è il candidato fatto e finito della sinistra e lo è a buon diritto. E' vero che la premier aveva costruito un rapporto molto solido anche sul piano personale con un papa da lei molto distante su parecchi dossier come Bergoglio. Ma non è affatto detto che la bella esperienza si ripeterebbe con un papa "di sinistra" ma anche italiano, dunque molto più interessato alle vicende del palazzo di quanto non fosse il pontefice argentino.

Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme, è stato considerato a lungo un diplomatico in grado di comunicare con tutti e di piacere dunque almeno a quasi tutti. Le cose sono cambiate dall'inizio della guerra di Gaza e dopo lo schieramento radicale e privo di ogni sottigliezza di Pizzaballa contro Israele. Per un governo che intende mantenere e rinsaldare un rapporto privilegiato e diretto con Donald Trump la sua ascesa sarebbe una pessima notizia. Qui però si entra in un gioco molto più vasto e molto più decisivo: quello della politica internazionale.

Su quel piano l'elezione di Pizzaballa sarebbe una scelta molto forte e uno schieramento esplicito della Chiesa: non solo contro Netanyahu ma anche e soprattutto contro Trump. Il presidente americano, che peraltro deve in buona parte la sua elezione al sostegno dei predicatori evangelici, è del tutto consapevole della portata della sfida e conta sul cardinale americano Dolan per piazzare invece un papa a lui gradito. Dolan non ha chances come candidato in prima persona ma è molto potente e dunque in grado di sostenere un papabile omogeneo al trumpismo: il cardinale della Guinea Robert Sarah, fiero avversario di tutto quanto sa di woke e con molte più possibilità dell'altro reazionario in campo, l'ungherese Péter Erdo.

Ma se Trump si muove facendo leva su Dolan molto più attivo è suo più diretto rivale europeo, Emmanuel Macron. Si sa che nell'escursione funeraria a Roma non ha esitato a riunire i cardinali francesi esortandoli a sostenere l'arcivescovo di Marsiglia Eveline. Non è una carta giocata alla cieca. Tra i preferiti di Bergoglio, il francese ne raccoglierebbe in pieno l'eredità senza sfumature di prudenza e le sue azioni sono in salita. Sarebbe una sconfitta pesante per il presidente americano e un risultato smagliante per quello francese: è dal 1378, data di morte di Gregorio XI, che non c'è un pontefice proveniente dalla Francia.

Nel grande gioco si è discretamente infilata anche la Cina, sponsorizzando il filippino arcivescovo di Manila Tagle, altro bergogliano di strettissima osservanza, ripreso mentre intonava una delle canzoni più antireligiose in generale mai scritte, Imagine di Lennon, e oltretutto mezzo cinese. Ma resta inevasa la domanda iniziale: nel risiko della politica internazionale quanto pesa il papa a corto di divisioni? La risposta a Stalin la ha data già nei fatti Karol Wojtyla, il papa guerriero che ha contribuito più di ogni altro alla sconfitta dell'Urss.