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Un’ «alleanza latina» tra Francia, Italia, Spagna e Portogallo nel segno di “Dio, onore e patria”, con Viktor Orban a fare da padrino. Si è conclusa così, nel broccato della sala conferenze dell’Hotel Plaza a Roma, la convention “national conservatism”, che ha incoronato la paladina italica Giorgia Meloni e lanciato l’astro nascente francese Marion Maréchal ( l’alleanza latina è di suo conio), nipotina di Jean- Marie Le Pen.
Ieri la città eterna è stata per un giorno la capitale del conservatorismo mondiale, ospitando il secondo raduno ideato dalla Edmund Burke Foundation, think tank olandese di ispirazione conservatrice, con la collaborazione dell’associazione politico- culturale italiana Nazione Futura. Che nel firmamento conservatore ci sia molta Giorgia Meloni e poco Matteo Salvini lo dimostra il programma dell’evento: la leader di Fratelli d’Italia ha avuto l’onore del discorso di inaugurazione, prima di volare a Washington dove passerà quattro intensi giorni di incontri con il gotha trumpiano di Oltreoceano; il Capitano, invece, è improvvisamente sparito dal programma dove inizialmente era previsto un suo intervento. Da lui, twittatore seriale, nemmeno un accenno nè al cambio di programma nè un augurio di buon lavoro all’amico Orban, che pure ha incontrato ieri proprio prima che il presidente ungherese parlasse alla convention.
Il tema della due giorni, tra i fasti un po’ demodè di via del Corso, è «la crescita del nazionalismo in America ed Europa», che viene visto da molti come «una minaccia al mondo liberale del dopoguerra» ma da altri come «una continuazione delle migliori tradizioni politiche dell’ultimo secolo». La domanda, allora, è: «Il nuovo conservatorismo nazionale è una minaccia o una virtù?». Scontata la risposta dei presenti, nel segno dei due “numi tutelari” Ronald Reagan e Giovanni Paolo II, definiti da Meloni «due dei grandi uomini della storia che hanno incarnato la visione del mondo dei conservatori». Così conservatori del nuovo millennio provano a unirsi ( e contarsi), tentando di costruire un’asse internazionale sovranista, che costruisca punti di contatto e visioni comuni, contraddicendo la vocazione isolazionista del fenomeno.
Nel mirino, nemmeno a dirlo, è finita l’Europa: nessuno lo dice apertamente e la parola chiave da “abolrla” è diventata “riformarla”. «Il nostro principale nemico è oggi la deriva mondialista di chi reputa l’identità, in ogni sua forma, un male da combattere e agisce costantemente per spostare il potere reale dal popolo a entità sovrannazionali guidate da presunte élite illuminate», ha detto Meloni. Nessuna riforma da parte della Commissione e del Parlamento europei, l’unica possibilità di cambiamento per l’Unione europea potrà venire dai «governi nazionali», ha aggiunto Maréchal, lanciando la proposta di una «alleanza latina» che «insieme ai Paesi di Visegrad mantenga i legami col Regno Unito, gli Stati Uniti e la Russia», anche di fronte all’avanzata della Cina. Il nemico è il «processo di standardizzazione forzata» della Ue e per combatterlo «non dobbiamo parlare con una sola voce, ma con un coro di voci diverse». Da ultimo ha preso la parola il sovranista ad oggi più forte, nonchè l’unico al governo di un paese Ue. Viktor Orban, acclamatissimo, è stato quello che ha attaccato l’istituzione europea più a viso aperto ( «Sono l’unico fortunato in Europa che può dire quello che pensa», perchè «non ho pressioni per fare coalizioni, noi abbiamo la maggioranza assoluta. Quindi, quando dico qualcosa lo dico senza compromessi» ).
Senza giri di parole, ha chiesto all’Ue di «non costringerci a seguire la loro stessa strada sulla questione dell’immigrazione» e ha definito la gestione del problema uno dei due «grandi fallimenti» dei governi liberali ( l’altro é la crisi finanziaria del 2008). Lo scenario del presidente ungherese è apocalisttico: «Tra vent’anni, a causa dei cambiamenti demografici innescati dalla crescita delle comunità islamiche e dalla contemporanea decrescita della popolazione di tradizione cristiana, ci sarà un nuovo tipo di società». Per i progressisti «questo è un bene». Al contrario, prosegue, «in Europa centrale abbiamo un approccio diverso. Forse le loro societá saranno in futuro più felici delle nostre, ma noi non vogliamo correre rischi», ha scandito tra gli applausi. Un pregio, però, l’immigrazione lo ha avuto: «Ci ha dato l’opportunità di parlare del tema dell’identità nazionale». E, dopo quella nazionale, l’obiettivo è diventato quello di trovare un’anima comune per i conservatori: anche di plastica, ma strumentale a scardinare la vecchia guardia delle democrazie liberali e progressiste.