La voce roca, i colpi di tosse ripetuti, il nervosismo che emerge quando i toni si alzano e l’obiettivo dell’attacco diventa più concreto: le «classi dirigenti» dirigenti di Bruxelles, cioè Popolari, Socialisti e liberali.

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni entra alla Camera alle nove in punto, circondata dai suoi vice Salvini e Tajani e affiancata da mezzo governo. Applauso dai banchi della maggioranza. Il ministro Raffaele Fitto, il grande favorito per il posto da commissario che spetta al nostro paese, siede nei banchi centrali dell’Aula, di fronte a quelli dell’esecutivo.

L’astensionismo è «un fenomeno che ha attraversato molte nazioni in tutto il continente e che non può lasciarci indifferente», esordisce aggiungendo che «non può lasciare indifferente questo Parlamento e a maggior ragione non può e non deve lasciare indifferenti le classi dirigenti europee, a partire da quelle che anche in questi giorni sembrano purtroppo tentate dal nascondere la polvere sotto il tappeto, dal continuare con vecchie e deludenti logiche come se nulla fosse accaduto, rifiutandosi di cogliere i segnali chiari che giungono da chi ha votato e dai tanti che hanno deciso di non farlo».

Il chiaro riferimento è alle tre grandi famiglie europee, Popolari, Socialisti e Liberali, che 24 ore prima hanno annunciato l’accordo per i vertici della prossima Ue, con von der Leyen confermata alla Commissione, il portoghese Costa nuovo presidente del Consiglio e l’estone Kaja Kallas Alto rappresentante per la Politica estera e di sicurezza. Dalle elezioni europee «dobbiamo trarre alcune importanti indicazioni» perché tutte le forze politiche in questi mesi hanno sostenuto la necessità di un cambiamento nelle politiche Ue, nessuno ha detto che sarebbe stato sufficiente mantenere lo status quo» e soprattutto «tutti hanno concordato su un punto: l’Europa deve intraprendere una direzione diversa rispetto al posizionamento preso finora».

Un cambio di passo che per Meloni non può prescindere dal coinvolgimento dei Conservatori, il gruppo del quale è leader e che tuttavia ieri non è riuscito a trovare la quadra al suo interno, tanto da dover rinviare ogni decisione alla prossima settimana. Eppure i negoziatori di Ppe, Pse e Renew hanno deciso di fare da soli, e a Meloni proprio non va giù. Lo si capisce dai toni, dal nervosismo che emerge dal linguaggio del corpo, dalle parole con cui, dopo aver parlato di migranti e di Piano Mattei, di sburocratizzazione e di «follie eco-green», chiude il suo intervento così come l’aveva cominciato. Cioè all’attacco. «Alcuni hanno sostenuto che non si debba parlare con alcune forze politiche, che poi sono quelle stesse forze che più sono cresciute alle urne - dice - Oggi si scegli di aprire uno scenario nuovo e la logica del consenso viene scavalcata da quella dei caminetti, dove una parte decide per tutti: una “conventio ad excludendum” che a nome del governo italiano ho contestato e non intento condividere o accettare».

Passaggio sulla guerra. «Se l’Ucraina fosse stata costretta ad arrendersi oggi non ci sarebbero le condizioni minime per un negoziato, ma staremmo discutendo dell’invasione di uno Stato sovrano - sottolinea - Pace non significa resa e confondere pace e sottomissione creerebbe pericolosi precedenti per tutti». Smorfia di Salvini, che parlotta con Giorgetti. Si torna sulle nomine e Meloni insiste su una futura «maggioranza fragile» in Ue, definendola «un errore importante», per poi rendersi protagonista di un siparietto quando ricorda Satnam Singh, il lavoratore indiano abbandonato agonizzante per strada dal suo datore di lavoro. L’Aula applaude e si alza in piedi, lei attende poi fa un cenno ai suoi: «arzateve pure voi».

Parla di «popolo», anche se lo stesso popolo ha dato una maggioranza, seppur fragile, proprio a Popolari, Socialisti e Liberali. «Personalmente - incalza - non conosco alternative alla democrazia, e mi batterò sempre contro chi vorrebbe sublimare, anche a livello europeo, una visione oligarchica e tecnocratica della politica e della società». Tra le righe si legge un riferimento al presidente francese Macron, politicamente nato e cresciuto nei “salotti” parigini. «Praticamente ha ammesso la sconfitta, non so perché ha assunto questa postura», commenta un forzista di peso, mentre per un altro il discorso di meloni è stato «un po’ troppo piccato». Ma chi prova a smorzare i toni è Antonio Tajani, per il quale è giusto allontanare Id ma con Ecr si deve dialogare», perché «sbaglia chi confonde i due gruppi» e anche perché «per il Ppe i Socialisti sono un limite invalicabile», escludendo dunque ogni accordo con i Verdi.

Si fa sentire anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, per il quale in Ue «non si può prescindere dall’Italia». A sera, dopo repliche e voto i Senato, sono ancora sul tavolo due ipotesi: votare a favore di von der Leyen in sede di Consiglio europeo o astenersi, di certo non votare contro.